Da «L’equivoco don Milani», Einaudi, Torino 2023
Don Milani, possiamo dire così, arriva al momento giusto per soddisfare una esigenza profonda della coscienza pedagogica nazionale e siccome il problema del buon maestro è un problema permanente nelle nostre società, la sua figura si carica facilmente di tutta la somma di richieste di affidamento educativo che la democrazia continua ansiosamente a produrre. A chi rimettere la cura del giovane e con quali garanzie?
Ma resta la domanda, perché un prete? Perché nel punto più alto (e intenso) della modernizzazione delle strutture sociali e culturali del nostro Paese, il massimo di attese in senso democratico riguardo alla scuola vengono riversate su un uomo che la scuola pubblica detestava e aveva accettato di vivere lontano da ogni cosa, nei confini di una comunità di montagna povera e marginale? La figura di don Milani ci mette, in altri termini, di fronte al problema di una società che entra nella sua fase avanzata di democratizzazione sulla base di una cultura che resta saldamente ancorata a presupposti di tipo predemocratico, quando non esplicitamente antidemocratici. I riferimenti di don Milani restano la dottrina sociale della Chiesa e Leone XIII (dopo Marx e il socialismo) e quando egli si immagina il rapporto tra sé e il suo popolo se lo figura nel gesto dell’operaio comunista che al culmine di una crisi di coscienza si inginocchia ai bordi della strada e lo implora di accogliere la sua confessione.
È singolare che un Paese alla disperata ricerca di modelli pedagogici imparasse a trattare la sua unica istituzione educativa, quella grazie alla quale milioni di italiani stavano a fatica conquistando le sponde della cultura moderna, nei termini di un linguaggio che non solo le era storicamente estraneo (non è certo alla Chiesa che l’Italia deve la scuola come sistema di istruzione universale), ma a essa esplicitamente ostile. In un decennio in cui tutto stava cambiando, la coscienza educativa del Paese era alla ricerca di una figura che potesse rappresentare nel nome della modernità la duplice esigenza di affrancarsi dalla Chiesa e dalle elite sociali tradizionali. Ebreo convertito al cristianesimo e prete in odio alla borghesia, che nella Chiesa aveva aperto un’aspra polemica in nome dei poveri, don Milani sembra incarnare questa potente richiesta di cambiamento. In una maniera che ha qualcosa di profondamente ironico, tuttavia, la cultura pedagogica italiana finì per restare impigliata nelle stesse contraddizioni in cui si dibatteva il suo eroe.