ANGELA AMMIRATI La scuola sempre più ostaggio delle famiglie

«MicroMega», 4, 2024

Il 31 maggio 2024 sono stati celebrati i cinquant’anni dei decreti delegati, riforma che ha definitivamente mutato la struttura della scuola italiana, razionalizzando un ambito – quello della partecipazione democratica – che, sulla spinta dei movimenti di contestazione del Sessantotto, era stato posto come priorità nell’agenda politica, nell’ottica di superamento dell’ossatura antidemocratica e autoritaria della scuola italiana. Emanati in attuazione della legge delega 30 luglio 1973 n. 477 (per questo denominati decreti delegati) i decreti hanno istituito, tra le altre cose, i consigli di classe e d’istituto al fine di allargare alle famiglie e alla componente studentesca la partecipazione alla vita della scuola come elementi fondanti la comunità1.

Gli organi collegiali sono costituiti dal corpo docente e dalla componente genitoriale a cui per la prima volta, grazie appunto alla riforma in questione, viene riconosciuto un ruolo istituzionale, come portatrice di istanze della società civile all’interno della comunità scolastica.

Questa rivoluzione civile, frutto della lotta politica di una generazione che cercava emancipazione per sé e palingenesi per la società e per lo Stato, liberava la scuola dai residui di classismo e di fascismo che la storia vi aveva sedimentato. Erano gli anni di forti fratture con il presente di allora, che oggi appare come un passato remoto, rimosso e lontano, ma che all’epoca era attraversato da forze che tentarono una mordace repressione. La consapevolezza dei protagonisti di quegli anni, radicata nelle esigenze individuali di ognuno, ma compattata generosamente in una coscienza comune, se non di classe quanto meno generazionale, rivendicò con forza la volontà di prendere la parola, di partecipare ai fondamentali percorsi di soggettivazione e di promuovere spazi di emancipazione e gesti di rivolta anche nel contesto scolastico. Questo il carattere di irripetibilità del Sessantotto, quel miracoloso intreccio tra istanze diverse, politiche ed esistenziali, che riuscì a dare corpo alle idee e ai valori che la Costituzione aveva luminosamente enunciato.

Eppure quel processo di trasformazione delle legittime istanze dei movimenti per una scuola anti-autoritaria e democratica segnò anche l’inizio di un iter di norme e provvedimenti che gradualmente regolamentarono la relazione scuola-famiglia ridimensionandone l’idea originaria. Il processo di normativizzazione sfociò in una lunga, inattingibile serie di atti e provvedimenti, talvolta contraddittori, che nel corso di molti anni hanno avuto un effetto imprevisto, sicuramente non voluto rispetto agli obiettivi originari, rafforzando sempre più il ruolo della famiglia all’interno dell’istituzione scolastica e gradualmente eclissando la centralità della figura dei/delle docenti come soggetti esclusivi del progetto formativo.

La controversa evoluzione del rapporto tra i due soggetti istituzionali2 va collocata lungo un intero arco di mutamenti antropologici e politici che hanno investito le società contemporanee, una vera e propria controriforma globale3 caduta nel vuoto e nella disattenzione del corpo docente — a eccezione delle componenti più politicizzate — il cui perno fondamentale è costituito dall’intreccio fra asservimento alle esigenze del mercato, deriva tecnico-pedagogica e welfarizzazione, aspetti che hanno contribuito non poco alla domesticazione del corpo docente, allo svilimento della sua funzione intellettuale, allo svuotamento dei saperi in ottica produttivistica e all’immiserimento del mondo della scuola nella sua complessità, oggi sempre più distante dalla scuola disegnata e definita dalla Costituzione4.

La combinazione di questi processi indipendenti e del tutto vicendevolmente alieni ha portato alla depoliticizzazione della scuola e della figura del docente, lasciando all’interno del sistema scolastico spazi sempre maggiori alla componente famigliare, a scapito dell’autonomia del corpo docente sempre più ostaggio di un modello aziendalistico della scuola in cui proprio le famiglie, come se agissero in qualità di stakeholder (portatrici di interessi), si percepiscono sempre più come utenti di un servizio che dev’essere erogato a fini carrieristici ai propri figli.

Le forme di presenzialismo corporativo, che ha via via assunto la partecipazione famigliare, tenendo conto delle dovute eccezioni, uno dei segnali più lampanti del declino dell’autorevolezza della scuola e del corpo docente, soggetto incaricato a promuovere, nel pieno esercizio della libertà di insegnamento, lo sviluppo umano e culturale della persona. Nella visione novecentesca dell’Italia repubblicana la scuola è stata concepita come luogo dell’infedeltà all’origine5, ovvero a quelle strutture mentali in cui i figli/le figlie venivano formati/e nei contesti familiari, ma soprattutto come il nervo profondo del processo di democratizzazione e costruzione della cittadinanza.

Il processo di scolarizzazione avviato da parte dello Stato ha visto conquiste straordinarie che hanno modernizzato e civilizzato la società. Al tempo stesso, tuttavia, se da un lato alcune deficienze, risalenti al processo di unificazione nazionale, non sono mai state del tutto risolte si veda il fenomeno della dispersione scolastica -, dall’altro sono esplose nuove contraddizioni, dovute alle repentine trasformazioni economiche, tecnologiche e antropologiche imposte dall’affermarsi del nuovo ordine neoliberista.

Tuttavia, pur nelle sue profonde contraddizioni  – in quanto ha agito sia da dispositivo di disciplinamento dei corpi in vista di un assorbimento di sempre più numerose forze produttive nel mondo del lavoro, sia da centro primario di pratiche emancipatorie – la scuola ha compiuto la sua missione storica, sottraendo intere generazioni dal dopoguerra in poi all’analfabetismo e alla miseria culturale e sociale.

Il declino dei riferimenti politico-ideologici, con la crisi dei partiti della Prima repubblica e successivamente con la schiacciante pressione del neoliberismo, ha inaugurato un nuovo corso, connotato dal tentativo frammentario e disomogeneo di costruire un modello di scuola segnato da un paradigma utilitaristico, funzionale alle richieste provenienti dal mercato. La dismissione del ruolo primario e direttivo dello Stato nell’educazione non è andata a vantaggio di reali forme di autogoverno e pratiche politiche trasformative né è stata sostituita da un’ampia visione che tutelasse la cultura e permettesse il pieno sviluppo della personalità umana, come dichiarato negli articoli 3 e 9 della Costituzione. Piuttosto ha subito, come dicevamo, un ininterrotto diluvio di riforme, un guazzabuglio di sollecitazioni da norme, regolamenti e direttive che in comune hanno avuto solo una vaga, e forse perciò ancor più perniciosa, spinta verso l’aziendalizzazione, la funzionalità tecnicistica e una brutale quanto inutile burocratizzazione. In questo mutamento epocale si situa, da un lato, un duplice processo di risignificazione semantica della conoscenza, ridefinita in funzione dello sviluppo del capitale umano, e dall’altro di sradicamento dell’insegnamento dal terreno politico su cui la sua funzione era stata pensata.

La depoliticizzazione della figura dell’insegnante avviatasi con la stagione del riflusso, veniva apertamente perseguita da dispositivi legislativi riconducibili al decreto legislativo 29/1993 (concernente la razionalizzazione dell’organizzazione delle amministrazioni pubbliche e revisione della disciplina in materia di pubblico impiego)6, architrave di tutte le successive riforme scolastiche incentrate sull’autonomia, da quella Berlinguer (dpr 275/1999) passando per la riforma Moratti (legge 53/2003) fino alla renziana Buona scuola (legge 107/2015). Tale impianto normativo, contrariamente al disegno costituzionale che definisce la scuola un’istituzione pubblica, ha privatizzato il rapporto di lavoro, rifunzionalizzando la scuola e il corpo docente in ottica di servizio da prestare.

Le successive leggi che si iscrivono nel solco tracciato dal decreto legislativo 29/1993 più che assegnare alla scuola una vera autonomia l’hanno subordinata a una ricentralizzazione burocratica condizionando in maniera irreversibile le pratiche scolastiche, gli obiettivi didattici e la relazione scuola-famiglia. La scuola dell’autonomia riscritta dalle politiche neoliberiste ha espropriato di creatività e autonomia il corpo docente, irreggimentandolo in un ruolo sempre più burocratizzato, ordinario e ritualizzato.

Al ruolo dell’insegnante sono state sottratte aree costitutive della sua identità culturale e sociale, come l’auto-formazione – sempre più eterodiretta dal ministero e dalla piattaforma Indire7 – lo studio e la relazione in classe. Nella delegittimazione istituzionale e politica le famiglie pedagogiche8 hanno preso il sopravvento nel tentativo sempre più insistente e pervasivo di ricondurre la scuola a una sfera di propria competenza.

L’incontro scuola famiglia: un progetto divenuto utopia

La scuola soffre di una crisi di identità storica; non è più credibile agli occhi della società civile e dell’opinione pubblica, corrosa dalla miseria culturale e dal collasso del pensiero critico, incalzata dalle scienze sociali per la sua presunta inadeguatezza e incapacità di stare al passo con i tempi.

A fronte di un policentrismo educativo sempre più diffuso, il primato della socializzazione e formazione non è più esclusivo appannaggio delle strutture familiari, ma è ripartito all’interno delle relazioni di gruppo, dei mezzi di comunicazione di massa, dei social. Dunque la scuola vacilla nel sospetto e non sembra in grado di riabilitarsi, a meno di mutamenti che non appaiono però all’orizzonte se non nelle progettualità politiche di reti, movimenti e intellettuali impegnati nella costante immaginazione e promozione di pratiche di mutamento radicale. La prima detrattrice della scuola è proprio la famiglia che, nelle sue plurime composizioni e articolazioni, da un lato, mina l’autorevolezza del corpo docente con continue ingerenze e pretese, dall’altro tenta di scaricare sullo stesso, disinteressandosene, la responsabilità educativa dei propri figli. In altri casi – in Italia si tratta di numeri ancora residuali – vi sono perfino famiglie che praticano l’istruzione parentale (homeschooling) al fine di provvedere autonomamente all’educazione dei propri figli9. Una scelta che, qualsiasi sia la ragione ideologica o pedagogica, rafforza il principio individualistico, diffuso ai nostri tempi, secondo cui la propria prole sia una ricchezza da preservare contro ogni contaminazione della società. L’esaltazione della sacralità del modello familistico, a scapito di valori comuni basati sulla costruzione sociale della conoscenza, la cooperazione e il rispetto per le regole di convivenza, che solo un microcosmo politico come la scuola può offrire, è l’apoteosi della distruzione della scuola come bene comune.

Nelle sue fragilità e disfunzionalità la scuola è un’espressione di vita che nessuna famiglia o realtà comunitaria alternativa può sostituire.

Lo sgretolamento dell’alleanza tra famiglie e scuola ha eroso l’asimmetria dei due ruoli, quell’asimmetria che contraddistingue l’interazione tra un’istituzione pubblica e un singolo che si muove a titolo privato, tra il corpo docente, soggetto di trasmissione dei saperi, e la famiglia nel ruolo di delegante. La solidità dell’alleanza tra scuola e famiglia, per cui le famiglie si affidavano all’istituzione scolastica e all’insegnante, si è ormai esaurita. Il tramonto del modello tradizionale della scuola – di cui si prende solo atto senza alcun rimpianto – con i suoi processi di trasmissione del sapere e di identificazione verticale intergenerazionale ha contribuito all’affermazione di un modello di scuola segnata dalla confusione di ruoli e dall’orizzontalità, da un’alleanza tutta interna alle famiglie, mosse dalla convinzione che la scuola debba abdicare a regole troppo severe e tradizionali e conformarsi invece a quel clima famigliare protettivo, carico di indulgenze e complicità.

A fronte di una burocratizzazione didattica, sempre più centrata sulle performance individuali delle e-degli studenti chiamati a cimentarsi con continue proposte metodologiche, come le prove parallele, le prove Invalsi, le simulazioni di esami, i genitori rispondono con un controllo ossessivo sulla vita scolastica delle figlie e dei figli mediante le chat di classe, il registro elettronico, le mail, i colloqui, fino ad arrivare ad accuse e insinuazioni di presunti abusi di potere che sempre più spesso culminano in richieste di accessi agli atti e conseguenti procedure ricorsuali per gli esiti delle valutazioni e degli scrutini finali.

Questo familismo invadente e invasivo ha fatto da sfondo, pretestuoso e ideologico, a molti impianti legislativi. Ricordiamo che nella riforma 107/2015, la cosiddetta Buona Scuola, era annoverata la norma, fortunatamente inattuata, che prevedeva, secondo un tipico modello anglosassone, l’introduzione nei comitati di valutazione degli insegnanti anche delle famiglie, portatrici di interessi privatistici e individualistici.

A essere evaporata nei fatti è la dimensione sociale della scuola, non più ispirata a obiettivi di carattere generale, a guadagno dell’idea che essa debba essere al servizio degli obiettivi carrieristici delle nuove generazioni, perseguiti e foraggiati, fin dai percorsi liceali, dalle famiglie interessate al rendimento esclusivo della prole non anche alla crescita della comunità scolastica e della collettività. La colonizzazione dell’immaginario educativo operata dall’egemonia economicista non ha solo avviato una trasformazione semantica all’interno dei principi pedagogici, ma ha anche perpetuato le differenze di estrazione sociale non favorendo la mobilità sociale e il riequilibrio delle condizioni di partenza. La scuola-azienda mette a disposizione delle famiglie più agiate la possibilità di capitalizzare la loro posizione di vantaggio10 mediante una vasta offerta di iniziative e progetti, come l’anno di studio o brevi soggiorni formativi all’estero, finanziati con ingenti somme di denaro dalle famiglie medesime.

La scuola non riesce ad arginare il dispositivo familistico e la matrice dell’individualismo capitalista, mancando l’obiettivo di contrastare il divario delle condizioni materiali e culturali di partenza. Gli effetti iniqui che assumono sulla produzione delle diseguaglianze diseducative fattori come il contesto famigliare, lo spazio disponibile in casa, il capitale culturale ed economico della famiglia e le pratiche pedagogiche intrafamiliari sono ancora decisivi e persistenti11. D’altra parte l’idea di produrre un cambiamento della scuola nel tentativo di coniugare l’esigenza educativa con l’uguaglianza sociale si traduce spesso da parte della società in mere ed esclusive proposte di carattere emergenziale e welfaristico.

Negli ultimi anni si sono registrate diverse sollecitazioni e istanze, da parte di comunità politiche e associazioni familiari, alcune delle quali formulate sotto forma di appelli12, che chiedono alla scuola di ampliare la propria sfera di intervento.

A fronte delle esigenze di conciliazione vita-famiglia, continuamente disattese dallo Stato, si avanzano proposte alquanto vaghe e inadeguate di trasferimento del carico sociale sulle scuole, immaginando di prolungarne la didattica anche nel periodo estivo o semplicemente di trasformare gli ambienti della scuola in spazi adibiti allo svolgimento di attività didattiche o ricreative, senza esplicitare il ruolo che il corpo docente dovrebbe svolgere in tale inedito quadro. Il modello di una scuola sempre aperta al servizio dei bisogni e delle capacità del discente — in alcuni territori già in via di sperimentazione – è una battaglia politica fondamentale ai fini dell’uguaglianza educativa, ma rischia di risolversi in un’inefficace e suggestivo slogan se non si riconduce la questione a un’a-analisi politica complessa e sistemica.

La scuola deve tutelare e consolidare prioritariamente l’accesso universale alla conoscenza. Questo imperativo politico non può essere subordinato al ricatto produttivo e alle esigenze di conciliazione di vita-lavoro delle famiglie, ne può essere realizzato ignorando il problema delle carenze strutturali degli edifici scolastici vissuti già come reclusori durante l’anno accademico, figuriamoci con le elevate temperature del periodo estivo.

Né va sottovalutato che il trasferimento del welfare sulla scuola, già quotidianamente sperimentato dal corpo docente nella dimensione di un lavoro — sommerso e disconosciuto — di cura e accoglienza del disagio sociale, della vulnerabilità umana e della complessità delle relazioni familiari, rischia di snaturare la funzione pedagogica-intellettuale dell’insegnamento.

Il corpo della docente

La persistenza del modello famigliare nell’organizzazione sociale del lavoro è visibile principalmente nella scuola, tra gli ambiti lavorativi con la più alta percentuale di donne. Secondo i più recenti dati del ministero dell’Istruzione13, l’Italia è il Paese dell’Europa occidentale con il maggior numero di insegnanti donne, al pari di Paesi dell’ex blocco sovietico, come Lettonia, Lituania, Bulgaria, Repubblica Ceca, Slovacchia, Romania e Ungheria. Nelle scuole dell’infanzia e nella primaria, ordini di istruzione in cui l’insegnamento è maggiormente assimilato alla funzione materna, la presenza femminile giunge al 99%. Non a caso nel linguaggio comune persiste ancora l’uso dell’espressione impropria «scuola materna» al posto della denominazione corretta di scuola dell’infanzia.

La percentuale è destinata a scendere negli ordini superiori: nella secondaria di primo grado le donne rappresentano il 78% dei docenti; nella secondaria di secondo grado, il 67%.

La scuola è il luogo lavorativo per eccellenza dove le attitudini e le capacità storicamente attribuite del femminile sono state sottratte all’ombra del domestico per divenire modello generale di un lavoro sempre più precarizzato e sfruttato soprattutto nella fase avanzata della razionalità neoliberista. Cristina Morini14 ha messo in luce come il processo di femminilizzazione del lavoro in generale sia stato caratterizzato sia da una crescente forza-lavoro a basso costo sia dall’inserimento lavorativo delle donne nei settori lavorativi deputati alla riproduzione sociale, tra i quali appunto la scuola. Sugli aspetti ideologici di tale fenomeno la studiosa Marcella Farioli15, ha evidenziato una relazione profonda tra l’ethos familista italiano, la tendenza disciplinante della scuola e il progressivo aumento del numero di donne nel corpo docente. Il ruolo dell’insegnante è stato concepito come un prolungamento del ruolo di moglie e madre svolto dalle donne tra le mura domestiche in forza sia della compatibilità con le esigenze di conciliazione dei tempi famiglia-lavoro sia della continuità con le attitudini di cura, empatia e devozione concepite come qualità tipicamente femminili sulla base di una presunta predisposizione naturale.

La politica dei due tempi e dei due luoghi del lavoro di cura (mattina-scuola/pomeriggio-casa), alimentata dal falso mito dell’insegnamento come lavoro part-time, ha come postulato la capacità naturale delle donne di dispensare cura e occuparsi dei bisogni materiali e immateriali della vita umana.

In questa mobilitazione di fattori passionali, nella nuova organizzazione del mondo del lavoro, lo spazio riservato all’intimità e all’affettività, storicamente terreno della cura domestica, è richiesto come parte integrante della prestazione lavorativa. Le due sfere della vita, un tempo immaginate come ripartite tra un fuori spietato e un rifugio amorevole, sono sempre più confuse al punto che il lavoro è divenuto oggetto di devozione proprio come la famiglia17.

E mai come nella scuola questo aspetto è molto presente, dalla «dedizione» richiesta al corpo docente per mansioni burocratiche e funzioni gratuite nei confronti della propria comunità scolastica alle eccessive e a volte controproducenti attenzioni pretese dalle famiglie nei riguardi dei propri figli, i quali pur di essere legittimati e assecondati, ricorrono sempre più frequentemente a forme di prevaricazione e violenza nei riguardi del corpo docente, spesso introiettate dai modelli famigliari. All’insegnante si richiede dunque di essere al contempo assistente sociale, psicologa, educatrice18, in virtù di una presupposta affinità con il ruolo materno.

Per forza o per amore, come ci insegna Cristina Morini19, è la duplice dimensione del lavoro femminilizzato, basato sulla cura e sulle capacità relazionali e affettive, sfruttate e non riconosciute dalla ratio capitalista.

Alcune espressioni del femminismo tra gli anni Settanta e gli anni Ottanta perlopiù di ascendenza marxista si sono concentrate sulla valorizzazione del lavoro di riproduzione sociale, come presupposto essenziale dello stesso lavoro di produzione, mettendo in luce il nesso profondo e strutturale tra lavoro domestico e di cura, femminilizzazione del lavoro e sviluppo capitalista.

Analisi acute e feconde che tuttavia nella scuola non hanno lasciato traccia né un’eredità comune da coltivare, differentemente da altri contesti (università, librerie, biblioteche, case di accoglienza eccetera) ove il femminismo è divenuto una pratica di trasformazione costante del presente. Va detto che la generazione formatasi durante il femminismo degli anni Settanta in generale ha contribuito in minima parte alla diffusione di saperi femminili e di forme di critica antipatriarcale nella scuola, lasciando un vuoto di riflessione femminista.

Attualmente la componente femminile del corpo docente si colloca tra docenti formatesi negli anni del riflusso e della progressiva spoliticizzazione della società, inclini a interpretare il loro essere donna in ottica essenzialista e a fare della differenza la valorizzazione della specificità femminile; e altre appartenenti alle nuove generazioni, provenienti da contesti e realtà politiche femministe, che, sebbene rappresentino una componente minoritaria nella scuola, sono molto attive e presenti sia nel tempo scolastico sia in quello extrascolastico nel tentativo di coniugare la prospettiva critica femminista nei saperi disciplinari con la realizzazione di progetti e percorsi collettivi affinché la scuola possa essere un luogo di liberazione, trasformazione e autodeterminazione.

Conclusioni

La scuola oggi è svuotata di significato, appare come un soggetto sfuocato che sembra non incidere nella formazione dell’infanzia e dell’adolescenza, impotente e inadeguata nel trasmettere alle nuove generazioni il desiderio di apprendere.

Nel tempo della egemonia della tecnica, della devozione ai saperi di impresa e della cultura dell’immagine si è ormai diffusa la convinzione che la scuola non costituisca più uno strumento decisivo di crescita e di promozione personale e sociale. Le famiglie medesime, nelle loro diverse plurime articolazioni, per un verso non riescono a sottrarre la propria prole a questo inarrestabile declino motivazionale, per l’altro nutrono aspettative di carattere individualistico e privatistico aliene al significato e alla funzione che la scuola dovrebbe incarnare.

La svalutazione della scuola affonda le radici anche in questo diffuso immaginario dominato dalla semplificazione di pensiero critico e riflessivo, nella disaffiliazione all’idea di una scuola come progetto collettivo votato alla crescita della comunità.

Occorre riformulare un patto sociale, che sappia ricostituire una nuova alleanza tra famiglia e scuola per rimettere al centro delle preoccupazioni collettive il destino della scuola come bene pubblico e di tutte le soggettività operanti al suo interno.

Note

1 Sul tema si veda Chiara Martinelli, Rivoluzioni salienti. La riforma degli organi collegiali nella storia della scuola, «Rivista di Storia dell’Educazione», vol. 8, n. 1, 2021.

2 Tra i decreti legislativi che hanno seguito e normato la relazione scuola-famiglia si segnala il Testo Unico in materia di istruzione (d. lgs 297/1994): all’art. 3 sulla comunità scolastica, la norma recepisce quanto già presente nell’art. 1 dei decreti delegati ma regolamenta in maniera più dettagliata le funzioni dei van organi e ribadisce l’importanza della presenza della famiglia all’interno della scuola come parte significativa nel dialogo tra le parti. Il successivo dpr n. 567/1996 irrobustisce il concetto di partecipazione e prevede l’istituzione del Forum Nazionale delle associazioni dei genitori (art. 5ter) al fine di valorizzare la componente dei genitori e di assicurare una sede stabile di consultazione delle famiglie sulle problematiche scolastiche. Il Forum è stato istituito ufficialmente con il decreto ministeriale n. 14 del 18 febbraio 2002.

3 Per un’analisi complessiva sulle riforme che hanno mutato la scuola si veda Stefano d’Errico, La scuola distrutta. Trent’anni di svalutazione sistematica dell’educazione pubblica e del Paese, Mimesis, 2019.

4 Si rimanda ad Angela Ammirati, Eleonora Forenza, È ora di ricreazione femminista, in «Facciamo Scuola», DWF, 2024, n. 141.

5 Ibidem.

6 Stefano d’Errico, op. cit., p. 476-7.

7 L’Istituto Nazionale di Documentazione, Innovazione e Ricerca Educativa (Indire), insieme all’Invalsi e al corpo ispettivo del ministero dell’Istruzione, è parte del Sistema Nazionale di Valutazione in materia di istruzione e formazione.

8 Christian Laval, Francis Vergne, Educazione democratica, la rivoluzione dell’istruzione che verrà, Novalogos, 2021, p. 94.

9 Sul tema si veda Angela Galloro, Homeschooling. Quando l’educazione diventa un affare di famiglia, «Micromega», 2024, n. 4.

10 Christian Laval, Francis Vergne, op. cit., p. 98.

11 Ivi, p. 92.

12 Si veda per esempio l’appello lanciato dall’organizzazione WeWorld e dal duo Mammadimerda: bit.ly/45vQZVW.

13 Per maggiori informazioni si veda il sito di Orizzonte scuola al seguente link: bit. ly/4blzb6e.

14 Morini, Per amore o per forza. Femminilizzazione del lavoro e biopolitiche del corpo, ombre corte, 2010. Le analisi sulle trasformazioni del mercato del lavoro e dell’economia globale hanno trovato un paradigma di riferimento nel concetto di femminilizzazione del lavoro. Secondo la letteratura sul tema l’ingresso progressivo delle donne nel mercato del lavoro non corrisponde esclusivamente a un cambiamento quantitativo, ma a un processo più articolato e complesso che estende a tutta la forza lavoro sia le condizioni che hanno storicamente contraddistinto il lavoro femminile (intermittenza, reperibilità assoluta, flessibilità, precarietà eccetera) sia le attitudini relazionali, affettive tipiche del lavoro riproduttivo svolto nella sfera privata dalle donne. In questo senso il lavoro femminile con le sue performance relazionali e adattive e la mancanza di garanzie diventa modello generale del lavoro precario.

15 Marcella Farioli, Le vestali della classe media. Funzioni politiche della femminilizzazione dell’insegnamento nella scuola italiana, Dialoghi, 3, 2015.

17 Kathi Weeks, Abbasso l’amore. Critica femminista e nuove ideologie del lavoro, Manastabal, 25 marzo 2018, bitly/4bWnNd2.

18 Angela Ammirati, Eleonora Forenza, art. cit.

19 Cristina Morini, op. cit.

1 commento su “ANGELA AMMIRATI La scuola sempre più ostaggio delle famiglie”

  1. Ottimo e coraggioso articolo che in giusta controtendenza, mette in rilievo un malinteso diritto di genitori e famiglie a dettare comportamenti e modalità agli insegnanti.

    Aspetti che condizionano negativamente la didattica e i rapporti docenti-studenti e famiglie con conseguenze negative anche sulla qualità della Scuola in generale.

    È significativa l’introduzione del registro elettronico che da strumento per conoscere meglio l’andamento scolastico dei figli e diventato un mezzo di controllo sugli insegnanti.

    Sono un ex insegnante ma con la moglie ancora insegnante e quindi sono al corrente delle varie problematiche scolastiche…Inoltre mi interesso da decenni di Disagio Giovanile tematica sulla quale ho scritto il libro “Giovani Disgregati”.

    Dico questo perché un’osservazione che vorrei fare ad A. Ammirati è quella di aver messo forse troppo in evidenza che lo spirito, l’obiettivo massimo che dovrebbero avere i giovani, è quello della conoscenza, del sapere.. C’è tuttavia un aspetto importantissimo dei giovanissimi e degli adolescenti, addirittura fisiologico, che è quello dell’Operatività e della Manualità.

    Questo anche se non è un argomento completamente attinente al tema dell’articolo, è un problema gravissimo della Scuola che rientra nella divisione mente-corpo di antica memoria..

    Ancora complimenti. Sergio Massone

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