[Quaderni della decrescita, 1 gennaio 2024]
I dispositivi per la comunicazione stanno avendo enormi impatti culturali specie sui giovani, sulla loro educazione e capacità di percezione. Quando la loro visione di vita viene infilata a forza in uno schermo.
Introduzione
…sembra che per tutti coloro che hanno esaltato il postmoderno informatico e segnico-linguistico, quanto a liberazione del lavoro e della soggettività, si sia ripetuto, in vero, l’effetto di deformazione ottica provocato dalla sovrapposizione di ciò che è tecnica a ciò che è tecnologia, che da sempre impedisce a uno sguardo, che pur si vorrebbe critico, di lacerare il velo di un accecante positivismo e di un’ottundente reificazione.
Roberto Finelli, 2014
Siamo dentro, catturati nella grande rete. Siamo attori, ognuno con una parte assegnata dai ruoli virtuali, nel teatro dei social, con le nostre maschere/avatar, con i nostri post, nei riquadri di uno schermo, mentre ci interfacciamo con altri. Siamo attanti, soggetti di azioni (agency) talvolta consapevoli ma, anche quando siamo titolari di un pensiero, di una riflessione, la lingua che usiamo è mutata radicalmente. Essa risente, anche nello stile più personale, di una sorta di pervasivo uso tecnico: il battito su una tastiera sostituisce, non senza mutamenti cognitivi, il carta/penna, l’oralità si imposta di vocaboli e di una sin- tassi che segnalano l’abitudine alla presenza sui social, la costante attenzione ai cellulari che portiamo sempre con noi.
Sono cambiate, e noi con loro, le forme di vita sociali, la modalità di aggregarsi nei gruppi e di uscirne, è cambiato il modo con cui stiamo all’interno di quel che resta della cultura famigliare, delle tradizioni che caratterizzano dove e come abitiamo, l’idea che abbiamo sui luoghi da dove siamo arrivati, di quelli verso cui vorremmo spostarci, nel tempo e nello spazio. Se questa nuova Civitate Dei (il riferimento è all’opera De Civitate Dei di Sant’Agostino di Ippona, scritta fra il 413 e il 42ó d.c.) che abitiamo non è un luogo utopico ma dotato di questa strana concretezza, di cose materiali (le macchine, i mezzi, gli intermediari fisici, ciò che traiamo dall’ambiente naturale) e delle astrazioni che nutrono i nostri giudizi, pregiudizi, conoscenze, bias, opinioni, tutto ciò interroga l’educazione, la formazione, la pedagogia, l’insegnamento. La riproduzione sociale, nel senso di tutto ciò che è figliazione e cura del mantenimento fisico, affettivo, cognitivo di una creatura piccola, e — assai più prosaicamente — dell’allevamento di nuove soggettività sociali, atte ad assumere un ruolo come forza-lavoro, deve fare necessariamente i conti con i luoghi della Nuova Città. Provo a seguire alcune tracce e qualche incrocio fra i cammini.
Tempo, prima traccia
Anche il prezzo del tempo rappresenta un giro di conto, scambiamo momenti di vita con qualcosa che crediamo serva a perpetuarla, acquistiamo un vantaggio e altro, forse invalutabile, perdiamo, apprezzando, in senso proprio, il tempo vantaggioso, misuriamo anche l’entità della sua perdita, il tempo speso nel lavoro, nella formazione per essere in grado di conseguire quel vantaggio. Tempo, lavoro, educazione stanno in questo scambio, in cui lo scorrere delle vite diventa una merce fra le altre. Il discorso è vastissimo, quindi mi ci soffermo appena. I giovani, quando si chiede loro che tempo è stato quello della segregazione che hanno sperimentato durante il periodo del COVID, in cui hanno trascorso il periodo più critico dell’età evolutiva, parlano di una sorta di stasi disordinata, in cui ogni attività domestica si mescolava per luoghi e tempi, con quella della scuola, la vita famigliare infilata a forza in uno schermo o, viceversa, una lezione, una interrogazione immesse nel contesto privato di un salotto, di una cucina, per i più fortunati di una stanza personale. Onesto mescolarsi spazio-temporale lo descrivono, non senza fatica, come orientato da un sentimento opaco di melanconia, di noia, di attesa come di vigilia, di veglia ansiosa di qualcosa a venire di cui non sanno se saranno protagonisti. In queste testimonianze si annida un paradosso: in pandemia il tempo collettivo e il tempo dei corpi hanno subito un’accelerazione nell’apparente stasi. La macchina, mediatore e intermediario di ciò che andava fatto, ascoltato, scritto, imparato, ha imposto la sua temporalità, in modo autoritario. La televisione, costantemente accesa, ha alimentato, con il martellare dei dati sullo stato di diffusione del virus, la paura che serve a mantenere ordine e controllo sociale in ogni periodo di arresto delle regole democratiche. I dispositivi, PC, tablet, cellulari, hanno fornito i tutorial che insegnavano a tenere il corpo in efficienza, hanno dato i tempi dello studio e del lavoro, hanno riorganizzato la relazione con amici, famigliari lontani. Macchinario dotato di memoria prodigiosa e di tempi di elaborazione rapidissimi, ha fatto salire la febbre da connessione continua, così come il rifiuto sdegnato, la depressione, l’ansia da respiro corto. Il nodo problematico rappresentato dal tempo come storia, come cronaca, come memoria, come quotidianità, il paradosso di quell’apparente attesa, era ed è racchiuso in uno sguardo straniato. La sfasatura fra il tempo rappresentato dagli orologi e dai calendari, dallo scorrere dei minuti su un computer, e quello in cui noi lo afferriamo, cogliendolo come tempo nostro, personale, il breve scarto fra la privata rappresentazione di “quel che stiamo facendo” e la misura dettata da lancette e numeri, è come implosa. La breve vividezza con cui corpo e mente ci segnalano sono qui, ora, adesso, è come squassata. Nell’accelerazione dell’attivismo macchinico, già siamo stati spinti altrove. È stato uno scambio equo, soprattutto siamo in grado di apprezzarlo, dargli un prezzo?
Lavoro-scuola, seconda traccia
Non è cambiato solo il modo di esser giovani, ha subito una torsione il concetto di lavoro, trascinando con sé quello di educazione. Certo, almeno dagli anni Ottanta del secolo scorso, le categorie mediante le quali dire il lavoro, avevano già scombinato ogni inquadramento certo dei concetti ottocenteschi, soprattutto in ordine al tempo. Quanto, quando si deve lavorare? Il tempo di lavoro come un periodo nell’arco di una vita, definita appunto lavorativa, si è rattrappito nella pletora delle occupazioni precarie, spesso di merda, bullshit jobs, si è mutato in smart (versione soft, intelligente, del già normato telelavoro), la didattica a distanza anche per i più piccoli ha riportato le madri ad assumere il tempo di cura, di scuola, di lavoro d’ufficio in un marasma multifunzione (nella neolingua, multitasking, così da sembrare un virtuosismo). Sono cresciute, si sono radicate proprio con la dittatura pandemica della macchina, le pretese del mercato verso la scuola, ogni educazione fin dalla prima infanzia è da orientare alle competenze sociali, digital-imprenditoriali, utili al lavoro, opinato, più che realmente creato, effettivo, a disposizione delle nuove generazioni. La funzione della scuola è stata ridisegnata come bacino di formazione di quelle creatore in crescita che un ricercatore americano ha definito semilavorati, capitale umano in fieri, sul quale già fare estrattivismo cognitivo e sul quale praticare profìlazioni che consentano di non avere sorprese in termini di disobbedienza critica al sistema, o di collocazione nella scala sociale che ogni soggetto dovrà occupare. Il processo si è consolidato grazie alle trasformazioni del tirocinio lavorativo, già previsto negli istituti tecnico-professionali, nei percorsi professionalizzanti demandati agli Enti Locali, oppure fatto in casa dalle stesse aziende (la Fiat, nel secolo scorso, allevava i suoi operai e tecnici in un’apposita scuola di formazione che li fidelizzava per tutta la vita alla fabbrica). La legge 107/2015 (detta della “Buona scuola” (sic!) – al comma 181 – ha dettato i principi per la ridefinizione, via delega al governo, degli indirizzi e dei percorsi, la rimodulazione delle attività didattiche e di laboratorio. Nella stessa legge, ben 10 commi (dal 33 al 43) hanno introdotto l’Alternanza Scuola-Lavoro anche per i licei. La Guida operativa e la pletora della modulistica confondono il quadro che vorrebbero ordinare, non tenendo in conto il combinato disposto delle norme precedenti, ancora in vigore lasciando, di fatto, le scuole dell’autonomia a cercare come effettuare il monte ore. Non a caso, l’allora Governo Renzi, emanò anche la legge sul lavoro, il Jobs act (2014/2015), definendo legalmente il lavoro precario, flessibile, dislocato, che già altri improvvidi mini- stri e giuristi avevano inserito in innumerevoli forme contrattuali.
Formazione-lavoro, terza traccia
Dal 2015, e con pandemia come strappo, la questione del rapporto fra la scuola e il mondo del lavoro, ha continuato a cambiare forma più che sostanza. I Percorsi per le Competenze Trasversali e per l’Orientamento (PCTO) del 2018 consolidano la dipendenza dell’istruzione dalle richieste del mercato del lavoro, muovendo dalla surreale e fideistica credenza nei clamori del disallineamento fra ciò che la scuola insegna e le competenze richieste dal mondo produttivo (mismatching). Si smonta come inefficiente la pratica di scholè disinteressata, si disarticola lo spazio di sola cura del pensiero in età evolutiva e giovanile, si inventa un set di competenze per lavori che, a fine percorso, già saranno scomparsi. E allora, bisognerà ritornare a saggiare quel che si sa fare e a reimpostarlo con nuove competenze. Nel 2022 vengono istituite le ITS-Academy (Istruzione Tecnologica Superiore) che, mimando le maniere del modello europeo, nascono per catturare studenti che non accedono all’università, che arrivano da inutili percorsi professionalizzanti. Si deve imparare a fare, a fare un lavoro tipico del Made in Italy, nei cinque settori in ciii il made italico eccelle: agroalimentare, casa, moda, meccanica, ser- vizi all’impresa. Tali ITS Academy, normate come fondazioni a carattere pubblico-priva- to, vedono le reti di imprese che le guidano protagoniste di moduli di apprendistato nelle stesse factory di produzione (vedi Rai 1 Cultura, serie in 6 puntate Cercasi talento, dal 9 marzo 2022). Si pone, sul piatto del continuo mini-riformismo, un nuovo curricolo per gli istituti tecnico professionali, dipendente dalle aziende territoriali, nonché il liceo breve, che in quattro anni liquida finalmente le discipline astratte, concettuali, costruite su secoli di saperi e provvede a dotare i curricula personali degli alunni di abilità pratiche. A questo compito, come vuole la missione 4 del PNRR, penseranno gli “orientatori” e i “tutori”, nuove figure di docenti anzi, di vecchi docenti su cui, brevi corsi di formazione hanno innestato la neolingua e convinzioni solide su cos’è educare e formare i giovani, ovvero soggetti con competenze di cittadinanza digitale e globale, come li definisce con stolido entusiasmo uno degli insegnanti che ha appena finito il corso di preparazione.
Pur nella debolezza dell’impianto didattico, le macchine sono chiamate a svolgere il loro compito in una sorta di paradossale sostituzione nella relazione fra oggetti e umani. Il rapporto fra lavoratore, l’insegnante nel caso della scuola, e l’oggetto tecnico, scambia le caselle: si tratta di prestarsi all’operato della macchina che organizza la produzione, di stare fra lo strumento e il prodotto finito, occupando il luogo delle materie prime. Nelle aule digitali, previste dal PNRR- missione 4, denominate ambienti, si transita, senza gruppo-classe, senza insegnanti a segnare il percorso di apprendimento, semmai solo facilitatori dell’interazione macchinica. Si continua, adulti, bambini, ragazzi, con ben poca differenza, a fare quel che si fa con il proprio cellulare nei momenti privati, a essere agiti in quella che precedentemente ho definito lo spazio-tempo di una nuova cittadinanza. Essa prevede, come nell’utopia agostiniana, una religione, dei rituali, dei totem a segnare i contesti di azione-proibizione, una casta di filosofi e una di soldati, i primi ad elaborare e sostenere il consenso fideistico, i secondi a garantire che regni l’ordine, che vengano dette e intese parole performative, capaci di dirigere l’azione.
Convivio, quarta traccia
Si può ridurre l’alienazione tecnica che gravita fra tecnofìlia e tecnofobia? Le macchine, in cui i corpi sono presi ostaggi in una nuova catena di montaggio che assembla intelligenze, memorie, cognizioni, sono esseri tecnici con cui convivere e con cui evolvere? L’attitudine haker, come stile di approccio all’oggetto tecnico, sembra riservarci questa possibilità di vicinanza conviviale, dialogante e co-evolutiva. Nella lunga storia del rapporto fra tecnologia e tecnica, fra vita e strumenti per la vita, costante è il tentativo di comprendere la relazione fra gli umani e le cose. Cosalità degli oggetti di cui ci circondiamo, la loro qualità funzionale, artistica, affettiva. Cose belle, brutte, utili, dannose. La materia che, seguendo uno dei percorsi della sua etimologia greca, latina, ebraica, rimanda a legno, come ceppo e matrice. Cosalità fatta di apporti naturali trasformati dalla materia sociale, il metabolismo uomo-natura mediato dagli strumenti, che ogni aggregato sociale crea e di cui dispone. Apporti della natura a esaurimento di cui ha bisogno con voracità l’odierno macchinismo: terre rare, coltan, zinco, ferro, metalli preziosi, acqua, ecc. E, ovviamente, lavoro umano, mani piccole di donne e bambini per maneggiare i chip, schiavi nelle miniere e sviluppatori di algoritmi in catene di lavoro digitale da cui sono completamente alienati. Troppo spesso anche le persone più avvertite – gli insegnanti, i nostri giovani – sembrano non sapere cosa c’è dentro un PC, un tablet, un cellulare, da quali percorsi arriva a noi e dove andrà a finire a obsolescenza esaurita.
Precauzione, quinta traccia
Ci sono artefatti aperti, manipolabili, rimo- dulabili, aggiustabili, e strumenti chiusi per i quali le operazioni di ritocco e riuso non sono consentiti ai più, e devono essere delegate a coloro che li hanno creati nei loro laboratori, a coloro che ne hanno carpito i segreti di assemblaggio. Oggi le macchine, i dispositivi di cui ci circondiamo, quelli nelle nostre mani e quelli che guidano complicati processi a distanza, a quale categoria appartengono? Hanno le caratteristiche di esseri in qualche modo dotati di vita, sono soggetti al cambia- mento evolutivo, autopoietico, sono interlocutori con i quali porci in colloquio, in rapporto dialogico? Nel novero di coloro che praticano quell’attitudine haker, si sostiene che, non solo è possibile, ma necessario: occorre rinegoziare il rapporto di potere fra noi umani e il macchinismo di ultima generazione, fare convivio. Ma mi pare non possa esser esclusa la domanda che la fantascienza ha posto, fin dai suoi esordi nell’immaginario collettivo, a qualsiasi alieno: da dove vieni, cosa esattamente ti proponi mentre visiti il mio contesto e lì ti insedi? Come scrisse il padre della cibernetica Wiener, occorre comunque segnare confini, differenze, comprendere scopi e genealogie della tecnica. Ridurre l’alienazione che ci separa da ciò che entra in contatto con il nostro corpo-mente (basterebbe dire corpo, ad ogni buon conto) ha a che fare con la capacità di mantenere alta l’attenzione su tutto ciò che è tecnologia come logos, come elaborazione socioeconomica alla base della techne insomma poter capire chi è il cibernauta alla guida dei processi di ricerca scientifica e dove si elabora il linguaggio della teologia macchinistica. Storditi dal tempo in fuga, incantati dal fascino dalle capacità espresse dai nostri cellulari e computer, guidati dai performanti messaggi del consumo, rischiamo di scordare ogni principio di precauzione.
Conclusioni
Praecavere è il verbo della prudenza e del dubbio preventivo, ma soprattutto dell’arresto a fronte di un pericolo, di un rischio. Possiamo declinarlo in senso micro: quanto costa alle creature piccole l’esposizione senza soste alla macina di parole e immagini offerte dalle macchine? Oppure in senso macro: quanto costa al pianeta, e a migliaia di esseri umani, produrre le macchine e migliorare la loro intelligenza? La risposta è legata alla capacità politica di analizzare le forme assunte oggi dal capitalismo cibernetico, e di venirne fuori.
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