ALBERT CAMUS La peste

Da «La peste», capp. 2, 4

Da questo momento in poi si può dire che la peste fu cosa nostra, di tutti. Sino a qui, nonostante lo stupore e l’inquietudine suscitati da quei singolari avvenimenti, ciascuno dei nostri concittadini aveva proseguito le sue occupazioni, come gli era stato possibile, al suo solito posto. E certamente questo doveva continuare; ma una volta chiuse le porte, si accorsero di essere tutti, e anche lo stesso narratore, presi nel medesimo sacco e che bisognava cavarsela. In tal modo, ad esempio, un sentimento sì individuale come la separazione da una persona cara diventò subito, sin dalle prime settimane, lo stesso di tutto un popolo, e, insieme con la paura, la principale sofferenza di quel lungo periodo d’esilio.

Una delle conseguenze più notevoli della chiusura delle porte fu, infatti, la subitanea separazione in cui si trovarono persone che non vi erano preparate. Madri, figli, sposi, amanti che avevano creduto, alcuni giorni prima, di procedere a una temporanea separazione, che si erano abbracciati sulla banchina della nostra stazione con due o tre raccomandazioni, sicuri di rivedersi pochi giorni o poche settimane dopo, affondati nella stupida fiducia umana, appena distratti, per quella partenza, dalle loro abituali preoccupazioni, si videro di colpo allontanati senza rimedio, impediti di raggiungersi o di comunicare. La chiusura era stata fatta alcune ore prima che il decreto prefettizio fosse pubblicato, e, naturalmente, era impossibile prendere in considerazione i casi particolari. Si può dire che quest’invasione brutale della malattia ebbe per primo effetto di costringere i nostri concittadini ad agire come se non avessero sentimenti individuali. Nelle prime ore del giorno in cui il decreto entrò in vigore, la prefettura fu assediata da una folla di postulanti che, al telefono o presso i funzionari, esponevano situazioni egualmente interessanti e, nello stesso tempo, egualmente impossibili da esaminare. In verità ci vollero parecchi giorni prima che ci rendessimo conto di trovarci in una situazione senza compromesso, in cui le parole «transigere», «favore», «eccezione» non avevano più significato.

Anche la piccola soddisfazione di scrivere ci fu negata. D’altronde, la città non era più collegata col resto del paese per mezzo delle comunicazioni abituali ordinarie, e, inoltre, un nuovo decreto vietò lo scambio d’ogni corrispondenza, per evitare che le lettere potessero diventare veicoli del contagio. Sul principio alcuni privilegiati poterono incontrarsi, alle porte della città, con le sentinelle dei posti di guardia, le quali consentirono a far passare dei messaggi all’esterno. Si era ancora ai primi giorni dell’epidemia, in un momento in cui le guardie trovavano naturale cedere a moti di compassione. Ma dopo qualche tempo, quando le stesse guardie furono ben persuase della gravità della situazione, esse si rifiutarono di prendersi responsabilità, di cui non potevano prevedere la portata. Le comunicazioni telefoniche interurbane, autorizzate sul principio, provocarono tali ingombri nelle cabine pubbliche e sulle linee, che furono sospese del tutto per alcuni giorni, poi limitate a quelli che si denominavano i casi urgenti, come la morte, la nascita e il matrimonio. I telegrammi restarono, allora, la nostra unica risorsa. Creature legate dalla mente, dal cuore e dalla carne, furono ridotte a cercare i segni dell’antica comunione nelle maiuscole d’un dispaccio di dieci parole. E siccome, infatti, le formule che si possono adoperare in un telegramma sono presto esaurite, lunghe vite in comune o dolorose passioni si riassunsero rapidamente in uno scambio periodico di formule bell’e fatte come: «Sto bene. Penso a te. Saluti affettuosi».

Ciononostante, alcuni di noi si ostinavano a scrivere e a immaginare senza tregua, per comunicare con l’esterno, combinazioni che finivano sempre col dimostrarsi illusorie. Quand’anche qualcuno dei mezzi da noi immaginati fosse riuscito, non ne sapevamo poi nulla, non ricevendo risposta. Per settimane fummo allora ridotti a ricominciare senza posa la stessa lettera, a copiare le stesse notizie e gli stessi appelli, sì che dopo un certo tempo le parole che dapprima erano uscite sanguinanti dal nostro cuore si vuotavano di significato. Le ricopiavamo allora meccanicamente, cercando di dare, per mezzo di quelle morte frasi, dei segni della nostra vita difficile. Infine, a questo monologo sterile e cocciuto, a quest’arido discorso con un muro, il convenzionale appello del telegramma ci sembrava preferibile.

[…]

In particolare, tutti i nostri concittadini si privarono assai presto, anche in pubblico, dell’abitudine, che ave-vano potuto prendere, di calcolare la durata della loro separazione. Perché? Gli è che se i più pessimisti l’avevano stabilita, a esempio, di sei mesi, quando avevano esaurito in anticipo tutta l’amarezza dei mesi futuri, sollevato il loro coraggio a livello di tale prova, teso le loro ultime forze per rimanere senza indebolirsi all’altezza d’un patimento prolungato per tanti giorni, allora, talvolta, un amico incontrato, un articolo del giornale, un sospetto fuggevole o una brusca chiaroveggenza gli dava l’idea che, dopo tutto, non c’era ragione che la malattia non durasse più di sei mesi, e forse un anno, o ancora di più.

In quel momento l’inabissarsi del loro coraggio, della loro volontà e della loro pazienza era sì brusco che gli sembrava di non poter mai più risalire la china. Di conseguenza, si costringevano a non pensar mai al giorno della loro liberazione, a non rivolgersi più verso il futuro e a tener sempre, diremmo, gli occhi bassi. Ma naturalmente una tale prudenza, un tal modo di barare col dolore, di rinchiudere le sentinelle per rifiutar battaglia, erano mal ricompensati. Nello stesso tempo che evitavano quell’inabissarsi, di cui a nessun costo volevano saperne, si privavano poi di quei minuti, nel complesso frequenti, in cui potevano dimenticare la peste nelle immagini del futuro ricongiungimento. E di qui, incagliati a mezza via tra gli abissi e le cime, ondeggiavano più che non vivessero, abbandonati a giorni senza direzione e a sterili ricordi, ombre erranti che non avrebbero potuto prender forza che accettando di radicarsi nella terra del loro dolore.

Provavano quindi la profonda sofferenza di tutti i prigionieri e di tutti gli esiliati, che è vivere con una memoria che non serve a nulla. Quello stesso passato in cui riflettevano senza tregua non aveva che un sapore di rammarico. Avrebbero voluto, infatti, potervi aggiungere tutto quello che deploravano di non aver fatto quando potevano ancora farlo con colei o colei che aspettavano; nello stesso modo, a tutte le circostanze, anche relativamente felici, della loro vita di prigionieri, essi univano l’assente, e quello ch’erano allora non li poteva soddisfare. Impazienti del proprio presente, nemici del proprio passato e privi di futuro, somigliavano a coloro che la giustizia o l’odio degli uomini fa vivere dietro le sbarre. Insomma, il solo mezzo per sfuggire a una tale insopportabile vacanza era quello di far correre i treni con la fantasia e di colmare le ore coi ripetuti rintocchi d’un campanello, sebbene ostinatamente silenzioso.

Ma s’era un esilio, nella maggioranza dei casi era un esilio in patria. E quantunque il narratore non abbia conosciuto che l’esilio di tutti, non deve dimenticare quelli, come il giornalista Rambert o altri, per cui, invece, le pene della separazione si aggravarono per il fatto che, forestieri sorpresi dalla peste e trattenuti in città, si trovavano lontani sia dalla persona che non potevano raggiungere sia dal paese loro. Nell’esilio generale erano i più esiliati: se il tempo suscitava in essi, come in tutti, l’angoscia che gli è propria, erano anche uniti allo spazio e urtavano senza tregua nei muri che dividevano il loro rifugio contagiato dalla patria perduta. Di certo, erano quelli che si vedevano errare a ogni ora del giorno nella città polverosa, chiamando in silenzio le sere ch’erano i soli a conoscere, e le mattine del loro paese. Nutrivano allora il proprio male di segni imponderabili e di messaggi sconcertanti come un volo di rondini, una rugiada al crepuscolo, o gli strani raggi che talvolta il sole lascia nelle vie deserte. Su quel mondo esterno, che può sempre salvare da tutto, essi chiudevano gli occhi, intestarditi com’erano a carezzare le loro chimere troppo reali e a inseguire con tutte le loro forze le immagini d’una terra in cui una certa luce, o due o tre colline, l’albero prediletto e dei visi di donna componevano un ambiente per loro insostituibile.

Per parlare infine più particolarmente degli amanti, che sono i più interessanti e di cui forse il narratore si trova a poter meglio parlare, essi erano tormentati ancora da altre angosce, tra le quali vanno annoverati i rimorsi. La situazione, infatti, gli permetteva di considerare il loro sentimento con una sorta di febbrile obiettività; ed era raro, in tali occasioni, che le loro proprie manchevolezze non gli apparissero chiaramente. La prima occasione, la trovavano nella difficoltà che avevano d’immaginare esattamente i fatti e i gesti dell’assente. Deploravano allora l’ignoranza in cui erano su come l’altro impiegava il tempo; si accusavano di leggerezza per aver trascurato d’informarsene e aver finto di credere che, per una persona che ama, l’impiego che del tempo fa l’amato non sia la fonte di tutte le gioie. Gli era facile, cominciando da qui, tornare indietro nel loro amore ed esaminarne le imperfezioni. Nei tempi normali sapevamo tutti, coscientemente o no, che non vi è amore che non possa superarsi, e accettavamo tuttavia, con più o meno tranquillità, che il nostro rimanesse mediocre. Ma il ricordo è più esigente; e, in modo assai logico, la sciagura venuta dall’esterno a colpirci con un’intera città non ci recava soltanto una sofferenza ingiusta, di cui avremmo potuto indignarci; ci provocava, anche, a far soffrire noi stessi, a consentire al dolore. Era questo uno dei modi della malattia per distogliere l’attenzione e per imbrogliare le carte.

E ciascuno dovette accettare di vivere giorno per giorno, e solo di fronte al cielo. L’abbandono generale, che alla lunga poteva temprare i caratteri, cominciò intanto col renderli futili. Per alcuni dei nostri concittadini, a esempio, essi erano allora soggetti a un’altra schiavitù, che li metteva al servizio del sole e della pioggia. Sembrava, a vederli, che ricevessero per la prima volta, e direttamente, l’impressione del tempo che faceva. Si rallegravano in faccia alla semplice vista d’una luce dorata, mentre i giorni di pioggia gli mettevano sui volti e sui pensieri un velo spesso. Qualche settimana prima, sfuggivano a tale debolezza e a tale servitù irragionevole in quanto non erano soli di fronte al mondo e, in una certa misura, la persona che viveva con essi si poneva davanti al loro universo. A cominciare da quel momento, invece, essi furono apparentemente abbandonati ai capricci del cielo, ossia soffrirono e sperarono senza ragione.

In tali estremi di solitudine, inoltre, nessuno poteva sperare nell’aiuto del vicino e ciascuno rimaneva solo con la sua preoccupazione. Se uno di noi, per caso, cercava di confidarsi o di dire qualcosa del suo sentimento, la risposta che riceveva, qualunque fosse, lo feriva, la maggior parte delle volte. Si accorgeva, allora, che il suo interlocutore e lui non parlavano della stessa cosa. Lui, infatti, si esprimeva dal fondo di lunghe giornate di ruminazione e di sofferenze, e l’immagine che voleva comunicare si era scaldata a lungo al fuoco dell’attesa e della passione; l’altro, invece, immaginava un’emozione convenzionale, il dolore che si vende nei negozi, una malinconia in serie. Benevola od ostile, la risposta cadeva sempre nel falso, bisognava rinunciarvi. O almeno, per quelli a cui il silenzio era insopportabile, e siccome gli altri non potevano trovare il vero linguaggio del cuore, si rassegnavano ad adottare la lingua dei negozi, e parlare, anch’essi, nei modi convenzionali, quelli della semplice relazione e della notizia, della cronaca quotidiana, insomma. Di qui, anche i dolori più veri si abituarono a tradursi nelle formule comuni della conversazione. Soltanto a questo patto i prigionieri della peste potevano ottenere la compassione del loro portiere o l’interesse dei loro ascoltatori.

Ciononostante, ed è la cosa che più vale, per quanto dolorose fossero le angosce, per quanto fosse greve da portare il cuore sì vuoto, si può ben dire che tali esiliati, nel periodo della peste, furono dei privilegiati. Nel momento stesso, infatti, in cui la popolazione cominciava ad atterrirsi, il loro pensiero era del tutto rivolto verso la persona che aspettavano. Nell’affanno generale, l’egoismo dell’amore li preservava, e se pensavano alla peste, era sempre nella misura per cui il morbo dava alla loro separazione dei rischi d’essere eterna. Portavano quindi nel cuore stesso dell’epidemia una distrazione salutare, che si era tentati di prendere per sangue freddo. La disperazione li salvava dal panico; il dolore, per essi, aveva qualcosa di buono. A esempio, se accadeva che uno di loro fosse portato via dal male, era quasi sempre senza che averse avuto ii tempo di riguardarsene. Tratto dalla lunga conversazione intima che sosteneva con un’ombra, egli era gettato allora, senza transizione, nel più fitto silenzio della terra. Non aveva avuto il tempo per niente.

[…]

Il più pericoloso effetto dell’esaurimento, impadronitosi a poco a poco di tutti coloro che continuavano la lotta contro il flagello, non era l’indifferenza agli avvenimenti esteriori e alle emozioni degli altri, ma l’incuria a cui si lasciavano andare; avevano allora l’inclinazione a evitare tutti i gesti che non fossero assolutamente indispensabili, e che gli sembravano sempre superiori alle proprie forze. Per tal via questi uomini giunsero a trascurare sempre più frequentemente le regole igieniche che avevano codificato, a dimenticare alcune delle numerose disinfezioni che dovevano praticare su se stessi, a correre talvolta, senza essere premuniti contro il contagio, da malati affetti da peste polmonare.