NATALIA GINZBURG Mio padre non tollerava le barzellette

Da «Lessico famigliare»

A mio padre piaceva la frutta molto matura; perciò quando a noi capitava qualche pera un po’ guasta, la davamo a lui. Ah, mi date le vostre pere marce! Begli asini siete! – diceva con una gran risata, che echeggiava per tutta la casa; e mangiava la pera in due bocconi.
– Le noci, – diceva schiacciando noci, – fanno bene. Eccitano la peristalsi.
– Anche tu sei monotono, – gli diceva mia madre. – Anche tu ripeti sempre le stesse cose.
Mio padre allora, s’offendeva: – Che asina! – diceva. – Mi hai detto che son monotono! Una bell’asina sei!
Quanto alla politica, si facevano in casa nostra discussioni feroci, che finivano con sfuriate, tovaglioli buttati all’aria e porte sbattute con tanta violenza da far rintronare la casa. Erano i primi anni del fascismo. Perché discutessero con tanta ferocia, mio padre e i miei fratelli, non so spiegarmelo, dato che, come io penso, eran tutti contro il fascismo; l’ho chiesto ai miei fratelli in tempi recenti, ma nessuno me l’ha saputo chiarire. Pure ricordavano tutti quelle liti feroci. Mi sembra che mio fratello Mario, per spirito di contraddizione verso i miei genitori, difendesse Mussolini in qualche maniera; e questo, certo, mandava in bestia mio padre: il quale con mio fratello Mario aveva sempre discussioni su tutto, perché lo trovava sempre di un’opinione contraria alla sua.
Di Turati, mio padre diceva che era un ingenuo; e mia madre, che non trovava che l’ingenuità fosse una colpa, annuiva, sospirava e diceva: – Povero mio Filippèt –. Venne una volta, a quell’epoca, Turati a casa nostra, essendo di passaggio a Torino; e lo ricordo, grosso come un orso, con la grigia barba tagliata in tondo, nel nostro salotto. Lo vidi due volte: allora, e più tardi, quando dovette scappare dall’Italia, e abitò da noi, nascosto, per una settimana. Non so tuttavia ricordare una sola parola che disse quel giorno, nel nostro salotto: ricordo un gran vociare e un gran discutere, e basta.
Mio padre tornava a casa sempre infuriato, perché aveva incontrato, per strada, cortei di camicie nere; o perché aveva scoperto, nelle sedute di Facoltà, nuovi fascisti fra i suoi conoscenti. – Pagliacci! Farabutti! pagliacciate! – diceva sedendosi a tavola; sbatteva il tovagliolo, sbatteva il piatto, sbatteva il bicchiere, e soffiava per il disprezzo. Usava esprimere il suo pensiero per strada, a voce alta, con suoi conoscenti che lo accompagnavano a casa; e quelli si guardavano attorno spaventati. – Vigliacconi! negri! – tuonava mio padre a casa, raccontando della paura di quei suoi conoscenti; e si divertiva, credo, a spaventarli, parlando ad alta voce per strada mentr’era con loro; un po’ si divertiva, e un po’ non sapeva controllare il timbro della sua voce, che suonava sempre fortissimo, anche quando lui credeva di sussurrare.
A proposito del timbro della sua voce, che non sapeva controllare, raccontavano Terni e mia madre che un giorno, in una cerimonia di professori, mentr’erano tutti riuniti nelle sale dell’università, mia madre aveva chiesto sottovoce a mio padre il nome di uno che si trovava a pochi passi da loro. – Chi è? – aveva urlato mio padre fortissimo, così che tutti s’erano voltati. – Chi è? te lo dico io chi è! è un perfetto imbecille!
Mio padre non tollerava, in genere, le barzellette, quelle che raccontavamo noi e mia madre: le barzellette si chiamavano, in casa nostra, «scherzettini», e noi provavamo, a raccontarne e a sentirne, il più grande piacere. Ma mio padre s’arrabbiava. Tra gli scherzettini, lui tollerava soltanto quelli antifascisti; e poi certi scherzettini della sua epoca, che sapevano lui e mia madre, e che lui evocava, a volte, la sera, con i Lopez, i quali, del resto, li conoscevano anche loro da tempo. Alcuni di quegli scherzettini, a lui sembravano molto salaci, benché fossero, credo, innocentissimi; e quando noi eravamo presenti, voleva raccontarli sussurrando. La sua voce diventava allora un rumoroso ronzio, nel quale noi potevamo distinguere assai bene molte parole: fra cui la parola «cocotte», che c’era sempre in quegli scherzettini ottocenteschi, e che lui pronunciava, studiandosi di bisbigliarla, più forte delle altre, e con speciale malizia e piacere.