Premetto che l’articolo «Nigris: “La valutazione descrittiva è più dettagliata e completa del singolo voto numerico”» (e non linkato: è l’ora di smettere di fare pubblicità alle pagine scandalistiche sulla scuola che fanno soldi spacciando non notizie) dice poco o nulla, a parte rubricare una docente (di Pedagogia Speciale, sic) dell’università Milano Bicocca, una sottosegretaria all’istruzione, e il solito Frate Indovino. La prima dice che la valutazione descrittiva è più completa del voto numerico, che equivale a dire che un buono è più esteso di un 8, e un bravo continua così ancora più esteso, e hai acquisito conoscenze puntuali e una buona capacità di analisi ancora di più e così via. La sottosegretaria dice che la sperimentazione della scuola senza voti ha generato confusione e è stata necessariamente un fallimento. Frate Indovino dice è colpa vostra perché non avete speso soldi per il monitoraggio. Niente di nuovo. Non sarebbe nemmeno il caso di leggerlo e di commentarlo un articolo come questo. Però mi chiedo: perché queste banalità rimbalzano da una pagina all’altra ogni giorno? Perché tanti [pseudo]intellettuali, universitari, giornalai, psichiatri si occupano con tanta costanza della profonda essenza educativa della valutazione nella scuola?
Questo è ciò che si legge in un altro articolo di Novella 2000 scuola: «Le opzioni sono due: se insegni per trasformare, allora la valutazione educativa (cioè con giudizi descrittivi) fa al caso tuo; se insegni per asservire, allora il voto numerico fa al caso tuo». Di corollario in corollario il giovane docente di Settimo Torinese (farebbe bene a fare esperienza prima di pontificare) arriva al punto che ci riguarda, ovvero il motivo di questa insistenza sulla valutazione educativa, che è qualcosa che assomiglia al nulla mescolato con il nulla, e nella migliore delle ipotesi una minestra riscaldata male. Attenzione alla battuta finale, che farebbe impallidire anche Corrado Guzzanti:
Fare orientamento è altamente possibile e, sì, parimenti augurabile. Proprio in quest’ottica va la normativa che – meno male – non chiede di fare ore in più. Chiede a noi insegnanti di rendere orientativa la nostra didattica. Cioè, far sì che le esperienze di apprendimento in cui sono immersi ragazzi e ragazze possano concorrere all’educazione alla scelta. La normativa vuole scardinare l’idea di un orientamento legato a una scelta, vuoi quella post medie o post diploma. Vuole far sì che l’orientamento sia inteso come orientamento formativo, ovvero come sperimentazione e mobilitazione di quella competenza che prende il nome di orientare a orientarsi