La scuola buona

Fino alla Buona scuola erano i governi a demolire la scuola pubblica (Autonomia, parità scolastica, Riforma Moratti, Riforma Gelmini…), i lavoratori della scuola opponevano resistenza a corrente alternata (sono state poche le piazze riempite), ma offrivano un apporto mediocremente tiepido all’applicazione delle riforme. Renzi non ha solo reso buona la scuola che prima non era buona, ha migliorato anche la mentalità.

Siamo diventati più costruttivi: collaboriamo attivamente alla distruzione di quello che resta della scuola pubblica, la descolarizzazione definitiva. Non solo adattiamo con entusiasmo riforme che nemmeno devono essere approvate dal governo (arrivano sotto forma di piani, con i premi in denaro e delle linee-guida: la digitalizzazione forzata degli ambienti di apprendimento, i tutor), ci inventiamo noi le sperimentazioni per rendere la scuola più divertente, più leggera, più simile a quello che chiede la società attraverso i suoi fiduciari (Confindustria, Associazione nazionale dei dirigenti…), mettiamo la nostra creatività al servizio della scuola resiliente: pcto sempre più accattivanti, progetti di aule con dispositivi sempre più intelligenti, lezioni a distanza sempre più performative (e meno formative) e ora, anche la scuola che non valuta con i voti (che producono il cosiddetto «malessere da misurazione» e di conseguenza «disaffezione allo studio per il piacere della conoscenza, frustrazione e demotivazione in caso di esiti negativi nelle prove di verifica, timore di etichettatura»), ma con dei ricchi moduli grigliati dove lo studente non viene più valutato solo in relazione alle prestazioni, ma sottoposto a un’osservazione che ricorda quella del Grande Fratello. Cito dagli atti di un convegno di dirigenti scolastici favorevoli alla descolarizzazione, un carrozzone con codazzo di prof universitari e docenti di scuola media alla ricerca di trovate per acquistare notorietà: «la lettura stratificata dell’apprendimento inteso come sviluppo di competenza si riflette nel riconoscimento di diversi ambiti di esplorazione»… ovvero, in ordine crescente: la prestazione, i processi, gli atteggiamenti, l’immagine di sé.

Attenzione, i fautori della valutazione educativa – si chiama così – non sono affatto critici verso la quantificazione bruta degli apprendimenti. Le crocette da barrare come naturale sbocco della rinuncia a utilizzare i numeretti, e la conseguente delega all’istituto nazionale di valutazione del sistema scolastico italico della propria funzione di certificare gli apprendimenti. E anche se con paroloni criticano la valutazione sommativa, sono costretti ad ammettere che alla fine di un anno scolastico un voto deve essere assegnato, la legge pretende un numero, presumibilmente da 1 a 10. Ciò che distingue i descolarizzatori dai docenti che conservano il voto anche per le verifiche intermedie è l’effetto sorpresa finale.

Il cambiamento nella mentalità si accompagna al fiorire di una corposa autocelebrazione delle proprie capacità demiurgiche rispetto alla crescita degli scolari (l’opuscolo di uno sperimentatore radicale ha un titolo veramente notevole: «Crescere senza scuola»). Quello che segue sembra un testo tratto da un’imitazione di Barbara D’Urso e invece sono le parole che un dirigente ha pronunciato nel convegno sulla valutazione citato sopra:

I cinque sensi che mettiamo alla prova in ogni attimo della lezione lasciano traccia solo quando agiamo con il cuore. E se il messaggio si sintonizza da cuore a cuore, parlare di autovalutazione e di valutazione è più fattibile perché tutti ci sentiamo più compresi, e siamo più propensi ad agire attivamente nel contesto in cui siamo inseriti ad apportare trasformazioni ad intra e ad extra.

Come siamo arrivati a questo punto? Questa opera mi sembra si possa chiamare «distrazione». La scuola è sotto attacco. L’orientamento soppianta la didattica, che è sempre più robotizzata, e crea discriminazione nella categoria preparando l’istituzione di figure di sistema con un proprio status, non parliamo poi delle retribuzioni, delle sperimentazioni selvagge, dell’invalsizzazione, di tutte le trovate demenziali dei ministri. E qualcuno non trova di meglio da fare che spingere avanti la carriola agli sponsor della scuola buona, monopolizzando la discussione in modo equivoco su un aspetto secondario del tema della valutazione e accusando chiunque non si associ alla narrazione di essere reazionario, antidemocratico, gentiliano, rossobruno.

Non siamo stati in grado di elaborare le sconfitte di questi anni. Qualcuno piuttosto che rassegnarsi preferisce partecipare alla descolarizzazione. Trova delle giustificazioni, sta compiendo una missione, combatte in prima linea contro la dispersione scolastica (nel liceo della buona borghesia di Monteverde vecchio), si pone come guida spirituale. I dirigenti no. I loro documenti sono la verniciatura di interessi molto più pratici. L’abolizione del valore legale del titolo di studio, che consegue in modo quasi matematico alla sostituzione dei voti con i giudizi, in realtà con la valutazione standardizzata dell’istituto italico di valutazione del sistema di istruzione, serve ad appaltare parte delle proprie incombenze e quindi a diminuire le grane.