Malpelo si chiamava così perché aveva i capelli rossi; ed aveva i capelli rossi perché era un ragazzo malizioso e cattivo.
Rosso Malpelo in realtà si chiamava Massimiliano Tosti. Lo sapevate? Io non lo sapevo. E mentre la studente con la coda di cavallo parlava ho pensato: guarda come sono ignorante, non ho mai saputo che Rosso Malpelo si chiamava Massimiliano Tosti. Poi, naturalmente, ho googlato e ho scoperto che Massimiliano Tosti, che si fa chiamare Rosso Malpelo, è un tiktoker. A questo punto mi sarei dovuto alzare in piedi e fermare la commissione denunciando lo scandalo. Macché. Mi accontento di osservare dove va la scuola, gli studenti che pescano nella realtà aumentata con gli strumenti della next generation ogni sorta di cianfrusaglie. E noi? Noi facilitiamo, aiutiamo a estrarre info. Non era quello che diceva Socrate, in fondo?
L’autodifesa dell’autore
Questo post, pubblicato su un social (idea malsana) ha suscitato alcuni commenti polemici che si possono riassumere in una sententia (di condanna): «il prof di italiano non doveva far passare una simile boiata». Giustissimo. Nondimeno mi sono preso la briga di scrivere una risposta. Intanto sì, è vero, Rosso Malpelo non poteva avere questo nome improbabile, ma ho pensato che il racconto fosse misteriosamente ispirato a un’inchiesta sulle condizioni dei minatori. E quindi il dubbio. Nel senso che sul Cencelli della didattica c’è scritto che l’insegnante preparato sa bene che Rosso Malpelo non ha un nome né tanto meno un cognome (la lupa il nome ce l’ha), e quindi deve intervenire, correggere e punire se è il caso chiedendo uno, due o tre punti in meno perché l’esame è una cosa seria. E il contesto, dove l’insegnante non è abbastanza preparato (nemmeno sul Cencelli), né reattivo, e non sa chi ha di fronte, non conosceva la studente fino a stamattina, sa a malapena qualcosa del suo curriculum.