Età dell’oro

Prima di Giove non v’erano agricoltori a lavorare la terra, e neanche si poteva sognare i confini dei campi e spartirli; tutti gli acquisti erano in comune, la terra da sé donava, senza richiesta, con grande liberalità, tutti i prodotti. Egli aggiunse il pericoloso veleno ai tetri serpenti, e volle che i lupi predassero, che il mare si agitasse, e scosse il miele delle foglie e nascose il fuoco e fermò il vino che fluiva sparso in ruscelli, affinché il bisogno sperimentando a poco a poco esprimesse le varie arti e cercasse le piante del frumento nei solchi e facesse scoccare il fuoco nascosto nelle vene della selce.
Virgilio, Georgiche, I 125-36, traduzione di Luca Canali

Come vivevano bene sotto Saturno sovrano, prima
che la terra fosse aperta a viaggi lontani!
Il pino non aveva ancora violato le acque azzurrine,
né offerto ai venti la velatura spiegata,
né l’errabondo mercante, che cerca di lucrare in sconosciute contrade,
aveva colmato la nave di merci straniere.
In quel tempo il possente giovenco non andò sotto il giogo,
né il cavallo mosse il freno con la bocca domata;
nessuna casa ebbe porte, né si piantarono pietre nei campi,
perché fissassero sicuri confini ai poderi.
Da sole le querce stillavano miele, spontaneamente le agnelle
recavano gonfie di latte le poppe incontro alla gente serena.
Non c’era esercito, non rabbia, non guerre, né il fabbro disumano
aveva foggiato con arte crudele le spade.
Tibullo, Elegie, I 3, 35-48, traduzione di Francesco Della Corte

Per prima fiorì l’età dell’oro, che senza giustizieri
o leggi, spontaneamente onorava lealtà e rettitudine.
Non v’era timore di pene, né incise nel bronzo
si leggevano minacce, o in ginocchio la gente temeva
i verdetti di un giudice, sicura e libera com’era.
Reciso dai suoi monti, nell’onda limpida il pino
ancora non s’era immerso per scoprire terre straniere
e i mortali non conoscevano lidi se non i propri.
Ancora non cingevano le città fossati scoscesi,
non v’erano trombe dritte, corni curvi di bronzo,
né elmi o spade: senza bisogno di eserciti,
la gente viveva tranquilla in braccio all’ozio.
Libera, non toccata dal rastrello, non solcata
dall’aratro, la terra produceva ogni cosa da sé
e gli uomini, appagati dei cibi nati spontaneamente,
raccoglievano corbezzoli, fragole di monte,
corniole, more nascoste tra le spine dei rovi
e ghiande cadute dall’albero arioso di Giove.
Era primavera eterna: con soffi tiepidi gli Zefiri
accarezzavano tranquilli i fiori nati senza seme,
e subito la terra non arata produceva frutti,
i campi inesausti biondeggiavano di spighe mature;
e fiumi di latte, fiumi di nettare scorrevano,
mentre dai lecci verdi stillava il miele dorato.
Ovidio, Metamorfosi, I, 89-112, traduzione di Mario Ramous

Quelli ch’anticamente poetaro
l’età de l’oro e suo stato felice,
forse in Parnaso esco loco sognaro.
Qui fu innocente l’umana radice;
qui primavera sempre e ogne frutto;
nettare è questo di che ciascun dice.
Dante, Purgatorio, XXVIII, 139-44

Allor tra fiori e linfe
traen dolci carole
gli Amoretti senz’archi e senza faci;
sedean pastori e ninfe
meschiando a le parole
vezzi e susurri, ed ai susurri i baci
strettamente tenaci;
la verginella ignude
scopria sue fresche rose,
ch’or tien nel velo ascose,
e le poma del seno acerbe e crude;
e spesso in fonte o in lago
scherzar si vide con l’amata il vago.
Torquato Tasso, Aminta, Coro dell’atto I