Da «La Sirena»
Il mio isolamento era assoluto, interrotto soltanto dalle visite del contadino che ogni tre o quattro giorni mi portava le poche provviste. Si fermava solo cinque minuti perché a vedermi tanto esaltato e scapigliato doveva certo ritenermi sull’orlo di una pericolosa pazzia. E, a dir vero, il sole, la solitudine, le notti passate sotto il roteare delle stelle, il silenzio, lo scarso nutrimento, lo studio di argomenti remoti, tessevano attorno a me come una incantazione che mi predisponeva al prodigio.
Questo venne a compiersi la mattina del cinque Agosto, alle sei. Mi ero svegliato da poco ed ero subito salito in barca; pochi colpi di remo mi avevano allontanato dai ciottoli della spiaggia e mi ero fermato sotto un roccione la cui ombra mi avrebbe protetto dal sole che già saliva, gonfio di bella furia, e mutava in oro e azzurro il candore del mare aurorale. Declamavo, quando sentii un brusco abbassamento dell’orlo della barca, a destra, dietro di me, come se qualcheduno vi si fosse aggrappato per salire. Mi voltai e la vidi: il volto liscio di una sedicenne emergeva dal mare, due piccole mani stringevano il fasciame. Quell’adolescente sorrideva, una leggera piega scostava le labbra pallide e lasciava intravedere dentini aguzzi e bianchi, come quelli dei cani. Non era però uno di quei sorrisi come se ne vedono fra voialtri, sempre imbastarditi da un’espressione accessoria, di benevolenza o d’ironia, di pietà, crudeltà o quel che sia; esso esprimeva soltanto se stesso, cioè una quasi bestiale gioia di esistere, una quasi divina letizia. Questo sorriso fu il primo dei sortilegi che agisse su di me rivelandomi paradisi di dimenticate serenità. Dai disordinati capelli color di sole l’acqua del mare colava sugli occhi verdi apertissimi, sui lineamenti d’infantile purezza.
La nostra ombrosa ragione, per quanto predisposta, s’inalbera dinanzi al prodigio e quando ne avverte uno cerca di appoggiarsi al ricordo di fenomeni banali; come chiunque altro volli credere di aver incontrato una bagnante e, muovendomi con precauzione, mi portai all’altezza di lei, mi curvai, le tesi le mani per farla salire. Ma essa, con stupefacente vigoria emerse diritta dall’acqua sino alla cintola, mi cinse il collo con le braccia, mi avvolse in un profumo mai sentito, si lasciò scivolare nella barca: sotto l’inguine, sotto i glutei il suo corpo era quello di un pesce, rivestito di minutissime squame madreperlacee e azzurre, e terminava in una coda biforcuta che batteva lenta il fondo della barca. Era una Sirena.
Riversa poggiava la testa sulle mani incrociate mostrava con tranquilla impudicizia i delicati peluzzi sotto le ascelle, i seni divaricati, il ventre perfetto; da lei saliva quel che ho mal chiamato un profumo, un odore magico di mare, di voluttà giovanissima. Eravamo in ombra ma a venti metri da noi la marina si abbandonava al sole e fremeva di piacere. La mia nudità quasi totale nascondeva male la propria emozione.
Parlava e così fui sommerso, dopo quello del sorriso e dell’odore, dal terzo, maggiore sortilegio, quello della voce. Essa era un po’ gutturale, velata, risuonante di armonici innumerevoli; come sfondo alle parole in essa si avvertivano le risacche impigrite dei mari estivi, il fruscio delle ultime spume sulle spiagge, il passaggio dei venti sulle onde lunari. Il canto delle Sirene, Corbera, non esiste: la musica cui non si sfugge è quella sola della loro voce.
Parlava greco e stentavo molto a capirla. «Ti sentivo parlare da solo in una lingua simile alla mia; mi piaci, prendimi. Sono Lighea, sono figlia di Calliope. Non credere alle favole inventate su di noi: non uccidiamo nessuno, amiamo soltanto».
Curvo su di essa, remavo, fissavo gli occhi ridenti. Giungemmo a riva: presi fra le braccia il corpo aromatico, passammo dallo sfolgorio all’ombra densa; lei m’instillava già nella bocca quella voluttà che sta ai vostri baci terrestri come il vino all’acqua sciapa.