La nostra scuola, 28 giugno 2025
È stato pubblicato sulla rivista «Le Nuove Frontiere della Scuola» (numero 67, «L’armonia») un articolo sul proliferare a scuola di counselor, orientatori, «facilitatori delle emozioni, delle relazioni, del benessere», «educatori dell’affettività» e simili, scritto a quattro mani da uno psicoanalista, Alessandro Zammarelli*, e da un insegnante, Luca Malgioglio. Lo riportiamo qui in versione non integrale e senza l’apparato delle note, per il quale si rimanda alla versione cartacea, dove si possono reperire anche tutti i riferimenti bibliografici
Premessa
Assistiamo in questo periodo al proliferare di figure scolastiche – dagli “orientatori” ai counselor ai “facilitatori del benessere, delle emozioni e delle relazioni” – che dovrebbero entrare in modo professionale nelle questioni di personalità degli studenti. A fronte di ciò, sono pochissimi coloro che fanno notare l’ovvio, la necessità cioè, per chi si occupi delle dinamiche psicologiche delle persone, di un’approfondita preparazione nel campo della psicologia; una preparazione che le figure cui si fa cenno sopra non hanno e non possono avere, a meno che non si consideri tale qualche corso online di 20 o 27 ore, destinato a sostituire percorsi decennali di studi, esperienze, terapia personale, esami, specializzazioni, tirocini. Questa finzione di professionalità inesistenti rappresenta un fenomeno allarmante, che può portare ad abusi, fraintendimenti, confusione, danni anche di una certa rilevanza, nel lungo periodo, sulle persone in crescita. Inoltre, a parere di chi scrive, il rischio di infiltrazioni di onnipotenza non elaborata nel processo di orientamento – inevitabile quando si svolge una “professione” senza essere davvero qualificati a farlo – così come quello di possibili proiezioni narcisistiche sugli studenti, potrebbe configurarsi come una realtà con cui poi dover fare i conti. Se si è inconsapevoli dei danni che interventi incauti nel campo delle motivazioni, delle scelte, degli affetti potrebbero produrre, la questione diventa particolarmente preoccupante.
Una scuola svuotata
Da almeno un decennio, con un’ulteriore accelerazione alimentata dai fondi PNRR, si prospetta e si auspica l’avvento di un modello di non-scuola in cui gli studenti vengono posizionati davanti ai device, magari con software di intelligenza artificiale che, in uno spaventoso paradosso, dovrebbero aiutare bambini e adolescenti a superare i problemi dell’apprendimento e le difficoltà relazionali; una scuola in cui gli studenti, già oggi, sono costretti a subire una velocizzazione e una riduzione della didattica ad addestramento a poche “competenze” e una digitalizzazione sempre più fine a se stessa; in cui sono confusi da miriadi di progetti, PCTO, “percorsi personalizzati” e privatizzati che limitano la possibilità di apprendere in modo progressivo e coerente e di vivere la quotidianità del gruppo classe e i rapporti affettivi profondi che si creano nel tempo con adulti e coetanei. Ci troviamo di fronte a un progetto di smantellamento della scuola pubblica attraverso una progressiva sottrazione di spazio per le relazioni, la parola, il lavoro comune sulle conoscenze e il nutrimento di contenuti culturali significativi, su cui gli studenti possano far crescere la loro umanità; dove tra l’altro gli spazi e le risorse per autentici interventi psicologici sono limitatissimi.
In questo scenario, si pensa di affidare un surrogato della dimensione emotiva e relazionale a “esperti” che non sono affatto tali e non ci si rende conto del fatto che proprio le relazioni all’interno del tessuto scolastico sono di per sé nutrimento alla crescita delle personalità.
Molto interessanti, a questo proposito, le riflessioni pubblicate di recente dalla scrittrice Silvia Avallone:
«È impossibile crescere, senza amici. È addirittura impossibile non sentirsi soli. La famiglia, l’amore, non riescono a sostituire quel gigantesco motore di scoperta di se stessi, quella complicità profonda e libera con l’altro che l’amicizia rappresenta.
[…] è quando cominci a separarti dai tuoi genitori per capire chi sei oltre che un figlio, quando ti affacci al mondo per scoprire i sogni che desideri azzardare, che gli amici diventano insostituibili. Gli alleati nella ribellione – contro la società, l’epoca, il destino. Lo specchio altro in cui immergerti per scovare ciò che non sai di te stesso. Sono coloro che ti accettano, ti spronano, ti accendono. E tu sei chiamato a fare altrettanto.
[…] Nessun algoritmo che procede a colpi di like può tornare utile in questa missione. Nessuno schermo può compensare il corpo che l’amicizia esige.
L’amicizia in adolescenza è una forza liberatoria: ci libera dalle catene di un passato che non abbiamo scelto, e libera le nostre potenzialità creative e affettive. Però ha bisogno di tempo, di luoghi. Gli smartphone, i social, che servono a tante cose, ma non a crescere, non devono sottrarre questi momenti, invadere questi spazi.
Sta a noi adulti difendere la possibilità dell’amicizia. Allora avremo nutrito l’adolescenza di ciò che è davvero essenziale: la libertà di ciascuno di diventare se stesso, insieme agli altri».
Uno spazio potenziale
La scuola è uno “spazio potenziale”, per usare un termine caro a Winnicott, dove è possibile coltivare il giusto compromesso tra mondo interno e mondo esterno, uno spazio intersoggettivo che nutre il gioco, poi il gioco condiviso e infine il tema culturale. Il lavoro comune sui contenuti culturali da parte di insegnanti e studenti dovrebbe prendere le mosse dal gioco winnicottiano, di cui è in qualche modo la continuazione: come nel gioco psicologico dello “scarabocchio” descritto da Winnicot, in cui il bambino e il terapeuta aggiungono a turno dei segni fino a formare un disegno comune, così il “gioco” della conoscenza prende vita grazie alla partecipazione dell’intero gruppo classe, che rielabora le conoscenze proposte dall’insegnante fino a creare insieme qualcosa che prima non c’era. In questo processo intersoggettivo e transazionale, ogni studente mette in gioco la propria personalità e può sviluppare indipendenza di pensiero e creatività.
L’ “orientamento” per come lo si intende ora, svolto da figure che non hanno una seria preparazione in psicologia, mortifica questo spazio potenziale in modo pacificamente insidioso. Dopo aver lasciato gli studenti in un vuoto “non potenziale” di relazioni, di contenuti culturali, di scopi, dopo aver saturato il tempo della relazione e della riflessione con attività spesso insensate, si pensa di formare velocemente figure che possano inserirsi maldestramente nel processo di crescita psicologica dei ragazzi, chiamate a indirizzare bambini e adolescenti in modo incauto, irrispettoso, privo di quel senso del limite che si dovrebbe sempre avere di fronte all’altro; tutt’altra cosa rispetto alla promozione di uno spazio di crescita e al sostegno discreto all’emersione di un genuino desiderio e di autentiche scelte individuali.
A complicare ulteriormente il quadro, si pensa di introdurre a scuola una sedicente “educazione emotiva e relazionale”, che si aggiungerebbe alla “sperimentazione” sulle “competenze non cognitive” (“adattabilità”, “affidabilità”…), con valutazione finale. Questa standardizzazione astratta e priva di ogni base seriamente psicologica mortifica la complessità della personalità individuale e svaluta il complesso lavoro del “conoscere l’altro”, competenza propria dello psicoterapeuta. Inoltre i tratti di personalità rozzamente abbozzati e sintetizzati rischiano, in mani poco esperte e preparate, di perpetrare un condizionamento negativo a doppio senso: in chi osserva e in chi viene passivamente osservato. Notiamo dunque che si sta tracciando un sentiero ideologico, dove l’ansia e la fobia verso le complessità umane vengono affrontate con una frettolosa quando non nevrotica etichettatura, stringente e apparentemente risolutiva per chi non ha la pazienza di attendere il dispiegarsi delle possibilità psicologiche della persona in crescita di giungere a una personalissima evoluzione di pensiero e di atto.
Cosa può fare la scuola
Per l’educazione affettiva degli studenti la scuola fa già tanto: offre un contenimento rassicurante, grazie a uno spazio protetto e a un contesto di regole sensate che protegge dalla confusione che i giovanissimi sentono dentro di sé e dà loro modo di pensare con più calma; permette di vivere quotidianamente la socialità, le amicizie, le relazioni che crescono con il tempo e di sperimentare i sentimenti nel gruppo dei pari e nel rapporto con gli adulti; propone conoscenze e contenuti – le storie e i racconti, ad esempio – che hanno molto a che fare con le emozioni e gli affetti e gli schemi relazionali. Si tratta proprio di quel contesto, cui si faceva cenno sopra, definibile nei termini di uno “spazio potenziale” e transizionale winnicottiano applicato al contesto scolastico, in cui è possibile giocare in modo condiviso con la cultura e l’esperienza della crescita. Al tempo stesso, la scuola orienta attraverso l’intrinseca forza orientante delle discipline: è proprio venendo a contatto con orizzonti conoscitivi nuovi e inediti che lo studente comincia a rendersi conto – senza forzature sempre più precoci – di quali siano le sue passioni, i suoi interessi, le sue propensioni.
Per altri tipi di interventi, anche di supporto, ci vogliono professionisti preparati, non “facilitatori delle emozioni”, “orientatori”, “esperti” del tutto improvvisati di questioni che toccano nodi interiori delicatissimi, che devono essere conosciuti molto bene prima che ci si permetta qualunque intervento su di essi: giocare da apprendisti stregoni con le emozioni dei soggetti in crescita senza conoscerne minimamente la natura, l’origine, le dinamiche, la profondità anche dolorosa e senza sapere davvero cosa si sta facendo, con una consapevolezza che richiede anni o decenni di studi psicologici, di esperienza personale, di lavoro con i pazienti, può catapultare in una situazione molto difficile da gestire e con pesanti conseguenze a lungo termine per tutti.
D’altra parte, il modo eventualmente distorto o complicato di vivere l’affettività, che deriva dall’intera storia di una persona e dalle relazioni che ha vissuto dalla primissima infanzia, non si cambia con quattro precetti astratti impartiti dall’esterno ma rendendo emotivamente consapevole quella persona, con i tempi spesso lunghi che ci vogliono, dei sentimenti negativi o dell’incapacità di sopportare quelli positivi, soprattutto inconsci – rabbia, paura dell’abbandono, invidia, rabbia, frustrazione; o anche amore, passione, affetto ed eros – che ha provato nel corso della sua storia e che prova nel presente. È un percorso che richiede un’enorme cautela, uno spazio adeguato, una professionalità specifica e soprattutto pazienza e capacità di attendere. Di questa professionalità è parte imprescindibile l’aver fatto chiarezza sulle proprie dinamiche interiori, con adeguati strumenti analitici, in modo da evitare la possibile proiezione delle proprie dinamiche non elaborate sulle persone che si ci si accinge ad aiutare.
Insomma, se si gioca a fare il “facilitatore” e si toccano incautamente e in maniera inappropriata le emozioni e le dinamiche psichiche di uno studente, poi cosa ci si fa di quelle emozioni, una volta che siano state fatte emergere a forza, magari in un modo o nei tempi sbagliati? E soprattutto cosa ne farà lo studente? Le elaborerà con un adulto consapevole oppure sarà confuso e spaventato e si disregolerà ulteriormente ? È un punto fondamentale, che non può essere preso alla leggera. Per questo, prima di lasciarci entusiasmare da facili processi e figure para-professionali, sarebbe necessario avere almeno consapevolezza della complessità e della delicatezza delle questioni psicologiche ed educative in gioco nel contesto scolastico.
* Alessandro Zammarelli è Psicologo ad indirizzo Clinico, Psicoterapeuta e Psicoanalista, specializzato in Psicoterapia Individuale e in lettura Psicodinamica dei Gruppi. È Socio e Psicoanalista della SIPre (Società Italiana di Psicoanalisi della Relazione), già membro del consiglio di Centro SIPre di Roma.
Ha lavorato a lungo presso gli sportelli di ascolto psicologici nelle scuole.