«Il pittore della vita moderna»
Se parlo dell’amore in rapporto al dandismo, la ragione è che l’amore rappresenta l’attività naturale degli oziosi. Ma il dandy non mira all’amore come a fine specifico. Se poi ho parlato di denaro, l’ho fatto perché il denaro è indispensabile a chi si fa un culto delle proprie passioni; ma il dandy non aspira al denaro come a una cosa essenziale; gli basterebbe un credito illimitato; ed egli lascia questa passione volgare ai comuni mortali. Il dandismo non è neppure, come sembrano credere molti sconsiderati, un gusto sfrenato del vestire e dell’eleganza materiale. Per il dandy perfetto tali cose sono unicamente un simbolo della superiorità aristocratica del suo spirito. Così, ai suoi occhi, avidi soprattutto di distinzione, la perfezione del vestire consiste nella semplicità assoluta, che è poi il modo migliore di distinguersi. Che cos’è allora questa passione che, fattasi dottrina, ha raccolto adepti dominatori, questa istituzione non scritta che ha formato una casta cosi altera? Essa è prima di tutto l’ardente bisogno di crearsi un’originalità, entro i limiti esteriori delle convenzioni sociali. È una specie di culto di sé, che può sopravvivere alla ricerca della felicità da trovare nell’altro, a esempio, nella donna; e che può sopravvivere persino a tutto ciò cui si dà il nome di illusioni. È il piacere di stupire e la soddisfazione orgogliosa di non essere mai stupiti. Un dandy può essere un uomo cinico, può essere un uomo che soffre, ma anche in questo caso, egli sa sorridere come lo Spartano addentato dalla volpe.
Così, per certi aspetti, il dandismo confina con lo spiritualismo e con lo stoicismo. Ma un dandy non può essere mai un uomo volgare. Se commettesse un delitto non ne sarebbe degradato, forse; ma se il delitto avesse origine da una causa ignobile, il disonore sarebbe irreparabile. Il lettore non si scandalizzi dinanzi a questa gravità nella frivolezza e ricordi che vi è una grandezza in tutte le follie, una forza in tutti gli eccessi. Strano spiritualismo! Per coloro che ne sono a un tempo i sacerdoti e le vittime, tutte le complesse condizioni materiali alle quali si assoggettano, dall’abbigliamento impeccabile a ogni ora del giorno e della notte sino ai più spericolati virtuosismi sportivi, non sono che una ginnastica destinata a fortificare la volontà e disciplinare l’animo. Invero, non ero affatto in errore considerando il dandismo come una sorte di religione. La regola monastica più rigorosa, l’ordine irresistibile del Vecchio della Montagna, che imponeva il suicidio ai propri discepoli allucinati, non erano più dispotici né più ascoltati di questa dottrina dell’eleganza e dell’originalità, che impone, a sua volta, ai propri ambiziosi e umili seguaci, uomini spesso pieni di ardore, di passione, di coraggio, di energia contenuta, la terribile formula: Perinde ac cadaver!
Questi uomini possono farsi chiamare raffinati, favolosi, magnifici, leoni o dandy, ma tutti vengono da una stessa origine; partecipano del medesimo carattere di opposizione e di rivolta; sono rappresentanti di ciò che vi è di migliore nell’orgoglio umano, del bisogno, troppo raro negli uomini di oggi, di combattere e distruggere la volgarità. Di qui deriva, nei dandy, quell’orgoglioso atteggiamento di casta e di sfida, anche nella sua freddezza. Il dandismo fa la sua comparsa specialmente nelle epoche di transizione in cui la democrazia non ha ancora tutto il potere, e l’aristocrazia è solo in parte vacillante e svilita. Nel disordine di tali epoche uomini declassati, disgustati, disoccupati, ma tutti ricchi di forza naturale, possono concepire il progetto di costruire una nuova specie di aristocrazia, tanto più difficile da distruggere in quanto fondata sulle facoltà più preziose, più indistruttibili, e sui doni celesti che ne il lavoro ne il danaro possono concedere. Il dandismo è l’ultimo bagliore di eroismo nei tempi della decadenza; e il tipo del dandy, incontrato dal viaggiatore dell’America del Nord, non intacca in alcun modo la nostra idea; perché niente impedisce di supporre che le tribù che noi chiamiamo selvagge, siano i resti di grandi civiltà scomparse. Il dandismo è un sole al tramonto; come l’astro che declina, è superbo, senza calore e pieno di malinconia. Ma ahimè! La marea montante della democrazia, che tutto invade e tutto eguaglia, annega giorno dopo giorno questi ultimi rappresentanti dell’orgoglio umano e versa flutti di oblio sulle tracce di questi prodigiosi mirmidoni. I dandy si fanno tra noi più e più rari, mentre presso i nostri vicini, in Inghilterra, lo stato sociale e la costituzione (vera costituzione, quella che si manifesta nei costumi) lasceranno a lungo ancora uno spazio agli eredi di Sheridan, di Brummel e di Byron, sempre tuttavia che se ne presenti qualcuno che ne sia degno.
Ciò che al lettore può essere sembrata una digressione, non lo è per niente, in realtà. Le considerazioni e le fantasie morali che scaturiscono dai disegni di un artista sono, in molti casi, la traduzione più conveniente che il critico possa darne; le suggestioni sono parte di un’idea madre, e questa ci può fare intravvedere, quando si mostrano quelle una dopo l’altra. C’è bisogno di dire che G., quando schizza sul foglio uno dei suoi dandy, gli presta sempre il suo carattere storico, persino leggendario, arriverei a dire, se non si trattasse del tempo presente e di cose considerate in genere come frivole? Proprio questa leggerezza di tratti, questa certezza di maniere, questa semplicità nell’aria di dominio, questo modo di indossare un abito e di portare un cavallo, questi atteggiamenti sempre calmi ma tali da esprimere la forza, che fanno pensare, quando il nostro sguardo scopre uno di questi esseri privilegiati in cui il piacevole e l’orribile si confondono cosi misteriosamente: .
il carattere di bellezza del dandy consiste soprattutto nell’aria fredda che nasce dall’incrollabile risoluzione di non essere commosso; si direbbe un fuoco latente che si lascia appena scorgere, che potrebbe ma non vuole ardere. Ed è ciò che, in queste immagini, viene perfettamente espresso.