EDWARD W. SAID Lettera aperta agli intellettuali ebrei americani

«MicroMega», 3, 2024

Nel 1989. lo studioso palestinese americano Edward W. Said scrisse una lettera aperta ai suoi colleghi ebrei, invitandoli a prendere posizione contro gli abusi di Israele nei confronti dei palestinesi. Ritenne tuttavia di non pubblicarla, perché troppo incendiaria. Inedita fino al 2022, quando è stata pubblicata sulla rivista statunitense «Jewish Currents»

Ho sentito spesso il rabbino Arthur Hertzberg (1) dire che per gli ebrei americani la causa di Israele è una sorta di religione laica. Quasi a corroborare ciò, nel suo recente libro sui periodi trascorsi come reporter a Beirut e Gerusalemme, il corrispondente del New York Times Thomas Friedman, cresciuto a Minneapolis, documenta aspetti della straordinaria importanza che Israele ha rivestito dopo il 1967 per la formazione culturale e intellettuale dei giovani ebrei della sua generazione: orgoglio, identificazione culturale con Israele come Stato forte, rinnovato interesse per la lingua e il passato ebraici. Dall’inizio della rivolta palestinese (2), tuttavia, c’è stato un cambiamento nello status di Israele tra gli ebrei americani: per l’esiguo numero di palestinesi negli Stati Uniti questo cambiamento è stato abbastanza evidente, ad esempio, nella nuova, travagliata percezione delle difficoltà irrisolte di Israele sui territori occupati, nel trattamento riservato ai palestinesi da parte dell’esercito e dei coloni, nell’intero concetto di uno Stato ebraico democratico in quello che è ancora un ambiente arabo e islamico inospitale.

Rivolgersi agli intellettuali ebrei americani come gruppo significa ovviamente presupporre che un gran numero di individui sia più omogeneo e coerente di quanto non sia in realtà. Certamente ci sono forti differenze che hanno consentito ad alcuni intellettuali di discutere apertamente di pace e riconciliazione con i palestinesi e altri per i quali il titolo di Irving Kristol (3) «Chi ha bisogno di pace in Medio Oriente?» (The Wall Street Journal, 21 luglio) (4) riassume l’atteggiamento ostruzionista di chi vuole che lo spaventoso status quo cambi il meno possibile. Tuttavia penso di avere ragione nel ritenere che per gli ebrei americani, così come per le varie fazioni in cui sono divisi, la realtà di Israele alla fine del 1989 sia un tema forte e una preoccupazione comune; ciò mi permette di rivolgermi a voi collettivamente in un momento in cui in nome del popolo ebraico Israele è impegnato in una battaglia con il popolo palestinese, un conflitto il cui corso, sono convinto, voi potete sicuramente influenzare, se non determinare.

In nessun momento del secolare conflitto tra palestinesi ed ebrei la lotta per la terra, i diritti nazionali e il destino politico è stata più aspra o critica. Per i palestinesi – anche se non ho il mandato di parlare a nome di nessuno tranne che di me stesso, cercherò di esprimere i miei sentimenti così come quelli dei numerosi palestinesi che conosco personalmente – questo è il periodo più importante della nostra storia dal dopoguerra. Per la resistenza generalmente non letale e di principio contro l’occupazione dell’Intifada; per i molti cambiamenti nel corpo sociale palestinese dall’inizio di essa, per il sensibile miglioramento della condizione delle donne, per una maggiore coerenza e visione politica, per lo straordinario aumento dell’autostima che ha accompagnato l’eliminazione della paura, per la mobilitazione delle risorse palestinesi in aiuto dell’Intifada, in un momento in cui «amici» (gli arabi, primi fra tutti) e nemici si erano quasi abituati all’indifferenza nell’affrontare la questione palestinese; soprattutto, per lo storico compromesso raggiunto alla riunione di Algeri del Consiglio nazionale palestinese (Pnc) a metà novembre 1988 (5). In quell’incontro è stato tracciato il terreno politico per ciò che in seguito è trapelato in modo ancora più esplicito: il riconoscimento di Israele, l’accettazione di una spartizione della Palestina mandataria in due Stati e delle risoluzioni Onu 242 e 338 (6), la rinuncia al terrorismo, un impegno formale per porre fine al conflitto attraverso la negoziazione politica, non attraverso la violenza.

Alcune di queste cose si possono spiegare più concretamente – dato il contenuto umano del loro significato profondo e complesso per tanti palestinesi – se le traduco nel materiale della mia esperienza personale. Come la maggior parte della comunità in esilio, non provengo dalla Cisgiordania o da Gaza. Sono nato a Gerusalemme Ovest in una casa ora occupata da una famiglia ebrea europea (o da più famiglie); mia madre è nata a Nazareth ed è cresciuta tra lì e Salad, dal 1948 città israeliana. Ho avuto una vita esageratamente fortunata, ma letteralmente ogni singolo membro della mia famiglia, materno e paterno, è un rifugialo colpito negativamente e in diversi casi catastroficamente dalla perdita di proprietà, cittadinanza e diritti politici conseguenti alla distruzione della società palestinese nel 1948; e un membro della mia famiglia allargata ha perso la vita in modo violento a causa del conflitto. Che il Consiglio nazionale palestinese (di cui ero membro e Yasser Arafat (7) possano solennemente accettare uno Stato non solo in meno del 25% della Palestina storica, ma per giunta in quella parte di territorio che non è esattamente la nostra zona natale, è quindi un sacrificio di notevole entità.

Quando gli ebrei parlano di Israele come di un luogo in cui tornano a casa, ammetterete che la parola «casa» alle orecchie palestinesi abbia un effetto letale. Non minimizzo quello che per gli ebrei è un antichissimo problema di persecuzione, alienazione ed esilio, ma dovete anche comprendere il nostro dolore al vedere letteralmente la nostra casa trasformata nella casa, nel Paese di qualcun altro, proprio come vedere che i morti palestinesi – colpiti da proiettili, picchiati, asfissiati da parte di Israele negli ultimi cinquant’anni continuano ad aumentare e ora si contano a migliaia. Soltanto durante l’lntifada il bilancio ha superato le 600 persone. Quindi ciò che è stato deciso alle riunioni del Pnc di Algeri ha un significato di poco inferiore all’auto-amputazione nazionale, fatta consapevolmente e, vorrei insistere, coraggiosamente nell’interesse della pace e di una certa misura di giustizia per una nazione deprivata, molto addolorata e sofferente. I palestinesi della mia generazione conoscevano la Palestina come un Paese prevalentemente arabo, sebbene controllato dagli inglesi e, per noi, gradualmente infiltralo da ebrei europei, i quali a dispetto di tutte le loro proteste teoriche sembravano arrivare in una terra che conoscevano principalmente attraverso la religione e l’ideologia. L’improvvisa catastrofica rottura per cui una terra e una casa una volta nostre sono state dichiarale lo Stato ebraico di Israele non può essere liquidata con disprezzo poiché la sua definitività ha colpito ogni singolo palestinese.

Questi sono fatti e richiedono una comprensione non inferiore a quella del vostro passato che voi come ebrei avete richiesto al mondo. Non dico che i fatti non vadano interpretati, dico soltanto che non vanno manipolati. Tuttavia, non penso che sia un’esagerazione affermare che, con poche eccezioni, il sostegno degli ebrei americani a lsraele dal 1948 in poi (e soprattutto dopo il 1967 è stato prescrittivamente legato a una disumanizzazione, al rifiuto e, dopo la metà degli anni Settanta, a una demonizzazione del popolo palestinese. In questo processo tremendamente importante e, per noi (visto che eravamo lì a vederlo accadere) orribilmente sminuente, gli intellettuali ebrei americani hanno svolto un ruolo fondamentale.

Ciò che conta qui è la verità, non un regolamento di conti, né una esposizione di capi d’accusa. È vero, tanto per cominciare, che come arabi, musulmani e non occidentali non abbiamo mai avuto accesso, né padroneggiato completamente, il discorso politico e culturale dell’Europa o dell’America. Tuttavia, nel periodo successivo al 1948, non avremmo dovuto emergere solo come «arabi» senza volto, assassini, nemici, soggetti a tutta una gamma di deformazioni poco attraenti, ripetute automaticamente e incessantemente (irrazionalità, fanatismo, misantropia, barbarie pura). Eppure è proprio così che siamo emersi, se «emersi» non è una parola troppo forte alla luce del profilo minimamente umano che abbiamo acquisito come risultato. E sono state queste caratteristiche negative a permettere agli intellettuali apologeti di Israele di contrapporci al liberalismo, alla democrazia, all’illuminismo israeliani eccetera, così da sottolinearli. E, devo aggiungere rapidamente, la nostra disumanizzazione è avvenuta come un’estensione della già impressionante serie di misure adottate da Israele per cancellare gran parte della nostra presenza dalla nostra terra natale. Centinaia di migliaia di palestinesi sono stati trasformali in rifugiati; oltre 400 villaggi palestinesi sono stati distrutti: guerre senza fine e misure punitive sia militari sia civili sono state attuate da Israele contro di noi. Entro la metà del 1967 l’intera Palestina storica era sotto il dominio israeliano.

Avrete sicuramente letto o sentito parlare del lavoro degli storici revisionisti israeliani (Morris, Segev, Flapan e altri) (8), le cui ricostruzioni delle devastazioni del 1948 e di quelle successive coincidono per lo più con le testimonianze palestinesi, che non sono mai state ascoltale negli Stati Uniti. Perché non sono state pubblicate o diffuse dai media tra i quali, come diversi critici hanno dimostrato in dettaglio, la paura della lobby israeliana o l’insabbiamento totale hanno fatto sì che a noi, alla nostra storia, alle nostre privazioni non fosse dato alcuno sbocco, non fosse concesso alcuno spazio significativo. Che ciò corrisponda esattamente alla cecità dei pionieri sionisti che vennero in Palestina e ignorarono, o sottovalutarono, la presenza lì di un altro popolo è solo una parte della storia. L’altra parte è ancora meno edificante: gli attacchi palesi in questo Paese contro tutto ciò che ha a che fare con i palestinesi, anche la loro rivendicazione all’esistenza. Potrei elencare molti altri nomi oltre, ad esempio, a Joan Peters (9), Leon Uris (10), Cynthia Ozick (11) o Norman Podhoretz (12), o molto altro oltre alle brutte parodie razziste della storia palestinese apparse su Commentary, Midstream, The New Republic (13), ma il punto è abbastanza chiaro.

Dopo il 1967, ma soprattutto dopo la guerra del 1973, quando l’America è diventata il pilastro di Israele, la riduzione retorica, discorsiva e ideologica dell’esperienza palestinese a un paio di terribili cliché, è diventata più importante che mai. Enormi quantità di denaro e armi sono andate a Israele; all’Onu ogni critica giusta o ingiusta nei confronti di Israele è stata bloccata (non sempre con successo) dagli Usa. Quasi senza eccezioni, i politici statunitensi hanno imparato l’arte di ignorare la verità – cose scomode come il bombardamento dei campi profughi o della USS Liberty (14), il comportamento audacemente illegale delle truppe israeliane nei confronti dei civili palestinesi disarmati, gli espropri, le censure, le detenzioni preventive, le espulsioni, le torture, le demolizioni di case, gli omicidi senza fine – e allo stesso tempo placare la lobby con più aiuti finanziari e più elogi per Israele, più preoccupazione su ciò che è «buono per Israele», indipendentemente da quanto cattivo potrebbe essere non solo per i palestinesi ma anche per gli statunitensi.

Prima dell’era Reagan, quando ancora non era diventata una consuetudine associare Israele alle strategie e alla difesa del Mondo Libero, una tattica intellettuale particolarmente spiacevole è emersa tra i liberali (ebrei e non ebrei) per i quali il pacifismo, il rispetto dei diritti umani, le cause antimperiali e antinucleari erano legittimamente attuali, ma che esplicitamente o implicitamente facevano un’eccezione per Israele. In qualche modo, le norme che regolano la critica ai regimi che hanno imprigionato persone ingiustamente, o che hanno discriminato i cittadini per ragioni di razza o religione, o che si sono fatti beffe del diritto internazionale, o che hanno intrapreso atti di pirateria, punizioni collettive e censura, o che si sono rifiutati anche solo di rispettare le Convenzioni sulla non proliferazione nucleare, sono state condonate o il giudizio sospeso nella maggior parte dei casi in cui Israele era coinvolto. E come le crudeli politiche israeliane senza un briciolo di magnanimità o compassione (questo era il periodo in cui l’«occupazione benevola» di Israele continuava a comparire sulla stampa) erano diventate routine per quanto riguardava il popolo palestinese, così anche gli intellettuali ebrei americani accettavano abitualmente questi abusi come necessari per la sicurezza israeliana.

La durezza del cuore e della mente è diventata all’ordine del giorno. Ciò che è sempre stato clamorosamente eccentrico anche nelle giustificazioni intellettuali più colte del comportamento di Israele è il fatto che tali giustificazioni ignoravano o rifiutavano di consultare le abbondanti prove disponibili. Questi sono fatti documentati dalla stampa israeliana e mondiale. Quando un aereo di linea siriano fu dirottato dall’esercito israeliano nel dicembre 1934 allo scopo di fare ostaggi (15), ciò avvenne pubblicamente, apertamente e senza vergogna. Quando le case vengono fatte saltare in aria, o i medici, i preti o i rettori universitari vengono espulsi, come avviene quotidianamente dal 1967, o centinaia di libri vengono banditi, questi fatti vengono pubblicati sulla stampa israeliana, ufficiale e non. Non riesco a capire come prove nude e crude possano essere ignorate dagli intellettuali americani perché la «sicurezza» di Israele lo richiede. Eppure vengono ignorate o nascoste, non importa quanto sia prepotentemente crudele, non importa quanto disumano e barbaro, non importa quanto forte Israele proclami ciò che sta facendo. Bombardare un ospedale; usare il napalm contro i civili; richiedere a uomini e ragazzi palestinesi di camminare a quattro zampe, abbaiare o urlare «Arafat è un figlio di una puttana». (16); spezzare braccia e gambe ai bambini; confinare le persone in campi di detenzione nel deserto senza spazi adeguati, servizi igienici, acqua e senza muovere accuse ufficiali, usare gas lacrimogeni nelle scuole: tutti questi sono atti orribili, che facciano parte di una guerra contro il «terrorismo» o che rispondano a esigenze di sicurezza. Non notarli, non ricordarli, non dire: «Aspetta un attimo: possono simili atti essere necessari per il bene del popolo ebraico?» è inspiegabile, ma significa anche esserne complici.

È sorprendente il silenzio autoimposto di intellettuali che possiedono, in altri casi e per altri Paesi, facoltà critiche estremamente fini. Ancora – dico «ancora» con una certa incredulità si sentono esonerare le pratiche israeliane che utilizzano frasi come «la particolare vulnerabilità di Israele al terrorismo contro i civili» o «Israele è una democrazia circondata da nemici totalitari che hanno giurato di distruggerla». Suppongo che queste affermazioni apocalittiche forniscano copertura ad almeno una arte del silenzio. Ma qui, sembrerebbe, una minima attenzione alla verità, alla realtà, alla storia e alla razionalità potrebbe dissipare affermazioni poco meno che grottesche. Ogni Stato arabo di una certa importanza ha accettato la risoluzione 242 delle Nazioni Unite da oltre due decenni; da almeno un decennio, fino a poco tempo fa con alcune chiacchiere e ambiguità umanamente comprensibili, la posizione palestinese è quella di dividere il territorio in due Stati. Dov’è la presunta prova che «gli Stati arabi hanno giuralo di distruggere Israele?». Semplicemente non esiste, ma anche se esistesse, c’è una qualche proporzionalità, una qualche simmetria tra i giuramenti da un lato e l’ostinata e sistematica oppressione per quattro decenni proprio di quelle persone spodestate e sfollale da Israele? Per quanto riguarda il «terrorismo», quel pesante cavallo di Troia ideologico, dobbiamo finalmente aprire gli occhi sull’enorme danno arrecato in nome dell’opposizione a esso. corpi sono lì per essere contati – migliaia di vittime palestinesi, oltre ai massacri del 1948, all’invasione del 1982, al tentativo di far morire di fame oggi intere città e campi a Gaza e in Cisgiordania, rispetto al numero relativamente basso di vittime israeliane, sono tutte il risultato di pratiche scioccanti e condannabili – ma non lo sono mai. Così dobbiamo desumere che come palestinesi le nostre morti e sofferenze contano 100 volte meno di quelle di persone vere come gli israeliani.

E questo non è tutto. Quando in relativamente pochi casi i fatti vengono divulgati, si verificano lentativi di repressione (chi può dimenticare Henry Kissinger che consigliò ai leader ebrei americani di vietare la stampa, in stile sudafricano (17), o Joseph Papp che cancellò gli spettacoli di una compagnia teatrale palestinese?) (18) e vengono lanciati sofisticati contrattacchi. Dopo l’assedio di Beirut nel 1982, l’American Israel Public Affairs Committee inviò conferenzieri in tutto il Paese per dimostrare che i media erano stati antisemiti. Quando il lavoro di Noam Chomsky vi fa allusione, lui, la persona, non quello che dice, viene attaccato senza pietà nonostante le montagne di prove che presenta; lo stesso sordido destino attende chiunque critichi i misfatti di Israele. Si è accusati di stalinismo, o di essere tirapiedi dell’Olp, o addirittura di essere «amanti degli arabi», epiteti tollerabili se allo stesso tempo le prove, i fatti e le cifre fossero effettivamente analizzati, dibattuti, confutati. Nella maggior parte dei casi queste cose non vengono nemmeno menzionale, tanto brutalmente globale è la modalità di attacco personale. Si diffama semplicemente la persona, si scredita il suo carattere o la sua storia e si evita sempre qualsiasi discussione sui dettagli confusi.

Non posso dire chi sia il responsabile di questo stato di cose, ma sicuramente non si sarebbe potuto verificare se la lobby israeliana (che solo nel 1988 ha speso oltre 3,8 milioni di dollari per le elezioni al Congresso, più di ogni altro Pac) (19) non avesse contato sul fatto che intellettuali che solitamente si fanno sentire avrebbero collaborato o taciuto. Col tempo, anche gli intellettuali non ebrei ne sono stati colpiti, e tutto il discorso sul Melio Oriente ha cominciato a conformarsi a questi toni obbedienti e servili, mai con effetti più sgradevolmente evidenti che nel linguaggio comune della politica presidenziale, congressuale e persino municipale. Devo notare con rispetto e ammirazione che a causa della guerra del Libano (20) e dell’lntifada alcuni intellettuali ebrei americani hanno cominciato a parlare apertamente. Ma anche in questi casi le abitudini di una generazione hanno influenzato e contenuto le loro parole. L’anima e l’idealismo morale di Israele, hanno detto molti dei dissidenti, sono stati corrotti, occultando così ciò che era accaduto prima del 1987, del 1982 o del 1967. Poi, mentre il discorso «alternativo» ortodosso continuava timidamente ad avanzare, esso ha cominciato a concentrarsi sui palestinesi principalmente come «problema demografico», una nozione poco lusinghiera come tutte quelle emerse dalla retorica dell’antisemitismo classico. E, quando il coraggio e l’entusiasmo erano davvero alle stelle, alcuni intellettuali ebrei americani ben intenzionati hanno consigliato ai palestinesi di cambiare la Carta (21), di non cantare le loro canzoni nazionali o di non rivendicare il diritto al ritorno in altre parole, di continuare a fare concessioni unilaterali mentre quegli stessi intellettuali avrebbero cominciato ancora una volta a prepararsi per tentare (forse) di persuadere Israele ad accettare non tanto la realtà dell’esistenza palestinese ma la possibilità che, se l’lntifada venisse abbandonata, allora, forse, ma solo forse, Israele potrebbe arridere o comunque guardare con favore agli abitanti palestinesi della Cisgiordania e di Gaza, la cui colpa principale è la loro esistenza.

Pochissimi intellettuali ebrei americani hanno detto forte e chiaro che, man mano che le principali posizioni politiche palestinesi si moderavano, le posizioni israeliane diventavano più irrazionali, più estreme, più inflessibili. Le differenze tra il Labour e il Likud sono state sottolineate, sì, ma con una disonestà mozzafiato che non ha evidenziato che il Labour ha avviato gli insediamenti (22), ha cooperato pienamente con la campagna «Pace per la Galilea» (23) e nei violenti tentativi di sconfiggere l’lntifada, che i laburisti hanno negato senza battere ciglio i diritti dei palestinesi nell’ipocrita «ricerca della pace» proprio come il Likud. Ogni volta che le richieste israeliane venivano soddisfatte, ne comparivano all’improvviso altre tre o quattro nuove. Il contributo principale dell’era Reagan-Schultz (24) è stato quello di instillare in tutti i sostenitori di Israele la disciplina di «non fare pressioni» su Israele. Alla fine del 1987, lo stesso giorno in cui Ronald Reagan rimproverò gentilmente Israele per aver sparato a bambini palestinesi disarmati (25), altri 280 milioni di dollari furono stanziati per il nostro alleato strategico. Quanti altri aiuti (ora fissati a oltre tre miliardi all’anno), quante scuse servili, quante vite palestinesi sono necessarie come «misure di rafforzamento della fiducia» (per usare il terribile gergo dei professionisti della risoluzione dei conflitti) affinché Israele e i suoi sostenitori finalmente acconsentano a esaminare i danni?

Si noti ancora una volta che qualunque dibattito su Israele venga avviato si basa sulla premessa che i palestinesi non sono, e non sono mai stati, il problema. Solo gli ebrei lo sono. Le fonti palestinesi vengono citate principalmente per mostrare quanto i palestinesi siano contraddittori, ambigui e inaffidabili. Devo ancora imbattermi in una seria attenzione alle risme di scrupolose prove e testimonianze raccolte da avvocati, ricercatori, poeti, romanzieri e registi palestinesi. Tutto questo materiale è anteriore ai vari rapporti internazionali sui diritti umani, ai libri bianchi di medici, avvocati e giornalisti che da allora hanno inondato il mondo al di fuori degli Stati Uniti con scarsi effetti sulle pratiche israeliane. Accostando le due serie di testimonianze si otterrebbe un ritratto composito di un popolo in carne e ossa che sopporta travagli reali, un ritratto che, credo, disturberebbe le caricaturali riduzioni su cui si basano molte delle vostre elucubrazioni e riflessioni su Israele.

Avete la New York Review, il New York Times, la New Republic, I’Atlantic Monthly e quasi tutti i principali giornali, settimanali e trimestrali a vostra disposizione; ogni network vi consulta 150 volte per ogni volta che consulta gli arabi americani. Quando un film come Days of Rage (26) non vi piace, potete fare di tutto per impedirne la proiezione. Tutto questo per continuare a trattare i palestinesi come terroristi raffazzonati, e quindi per continuare a considerare la loro tortura e uccisione semplicemente come una questione di mosche schiacciate o scarafaggi calpestati. Tutto questo per permettere a Israele, in nome del popolo ebraico, di continuare la repressione.

Ciò che Israele e i suoi sostenitori hanno fatto ai palestinesi, punire un’intera nazione, non può in fondo essere negato. Né si può sostenere che siano la paura e l’«insicurezza» ad aver di fatto dettato una politica volta a negare l’istruzione a centinaia di migliaia di studenti palestinesi chiudendo per mesi scuole e università. Merita la vostra attenzione una prova che fa riflettere su varie categorie di comportamenti ufficiali israeliani negli ultimi 18 mesi: cito dall’indice di Punishing a Nation, pubblicato da Law in the Service of Man, un’affiliata palestinese della Commissione internazionale dei giuristi (che non è né una copertura sovietica né dell’Olp) (27). Mentre leggete chiedetevi se la «paura» e l’«insicurezza» giustificano queste cose. Nella sezione «Uso della forza» abbiamo: statistiche su decessi e vittime; l’uso della forza in risposta alle manifestazioni; proiettili veri; proiettili di plastica; una politica di percosse; la pratica delle percosse; brutalità nell’esercito – uso di proiettili di gomma; uso del gas lacrimogeno come mezzo di terrore; molestie e distruzione di proprietà; raid dell’esercito nei villaggi e nei campi profughi: altre forme di brutalità; squadroni della morte. Alla voce «Ostacolo alle cure mediche» troviamo: ostacolo alle cure sanitarie; negazione dei servizi medici alla popolazione soggetta a coprifuoco prolungato; attacchi al personale medico sul campo; raid militari contro ospedali eccetera. Non dimenticate che questi abomini sono compiuti da una delle maggiori potenze militari del mondo contro una popolazione civile disarmata.

Questo triste elenco di elementi documentati, verificati, attestati nelle 475 pagine che seguono va avanti per sei pagine. È una lettura spiacevole, forse addirittura umiliante. Queste infrazioni commesse in nome del popolo ebraico suscitano qualche protesta pubblica? No, non se non vengono trattate come questioni di interesse pubblico da parte degli intellettuali influenti. E non se, come ormai è consuetudine, si sostiene che, poiché hanno avuto l’ardire di resistere alle pratiche israeliane, i palestinesi in realtà meritano e sono gli unici responsabili del loro calvario lungo mezzo secolo. E così è andata, mentre di fatto la guerra di Israele contro i civili palestinesi sotto occupazione militare (ricordiamo anche che una generosa porzione del Libano meridionale è pure sotto occupazione israeliana, un fatto mai menzionato nel tumulto per il rapimento di Sheikh Obaid) (28) costa 500 mila dollari al giorno, è sovvenzionata dagli Stati Uniti, e prosegue imperterrita nella sua implacabile crudeltà, razionalmente pianificata ed eseguita perché gli intellettuali ebrei americani non si oppongono, non alzano a voce, non si rifiutano di accettare un atto così degenerato, disonorevolmente spudorato, una politica portata avanti, a tutti gli effetti, in loro nome.

È vero, e stata annunciata una nuova lobby ebraica americana favorevole alla pace; è vero, ci sono state anche petizioni, articoli, proteste a intermittenza. Ma qual è la risposta, ad esempio, quando a pochi giorni di distanza l’uno dall’altro Ariel Sharon (29) e il Lubavitcher Rebbe (30) chiedono il rapimento e l’omicidio di Yasser Arafat? Nessuno si aspetta che vi piaccia Arafat («orribile» lo definì uno dei vostri luminari un paio di anni fa), ma almeno ricordate che per i palestinesi e per il mondo è un simbolo nazionale, accolto come capo di Stato praticamente ovunque. Richiedere la sua morte non è un atto di spavalderia o di snervante sfrontatezza: è una conseguenza diretta del permesso che avete dato, e che avete finanziato, ai politici israeliani di lare ai palestinesi più o meno tutto ciò che vogliono, impunemente. lo credo che Sharon sia un criminale di guerra, eppure qualche settimana la il sindaco di New York Ed Koch lo ha portato in un esuberante tour a piedi di Brooklyn.

Per evitare che ve la prendiate con me anziché con ciò che sto dicendo e con fatti che non possono essere facilmente confutati, vi concederò che la nostra situazione come intellettuali arabi e palestinesi americani non è qualcosa di cui vantarsi. Gli Stati arabi e i loro governanti sono una categoria spaventosa. L’Iraq massacra i curdi, I libanesi si liquidano a vicenda, la Siria bombarda tutto ciò che può, la Libia finanzia il terrorismo: questi e altri oltraggi hanno luogo in società prive di libertà democratiche, in cui la corruzione, l’incompetenza e una mancanza collettiva di  serietà regnano praticamente incontrollate e incontrastate. La rinascita dell’islam, non meno di quella del cristianesimo e dell’ebraismo, ha prodotto una spaventosa processione di leader religiosi squilibrati e di entusiasti con la schiuma alla bocca. I nostri non sono meno sgradevoli dei vostri, così come un’alternativa teocratica non è preferibile a un’altra. Inoltre, potrei sostenere un’invettiva contro la leadership palestinese che, come tutti ammettiamo, non è all’altezza della volontà del popolo di resistere, una volontà caparbia e piena di risorse.

Ammetto tutto ciò e altro ancora, ma questo non solleva voi in alcun modo dalle vostre responsabilità. Celebrare i notevoli successi di Israele, indulgere nel trionfalismo, chiudere un occhio sulle persecuzioni quotidiane in Cisgiordania e a Gaza semplicemente non va bene. Ciò da cui penso che dobbiamo iniziare è quindi il riconoscimento comune dell’asimmetria di potere tra Israele e palestinesi e, in secondo luogo, il riconoscimento che Israele e i suoi sostenitori hanno una grande responsabilità per l’attuale situazione del popolo palestinese. Non posso misurare esattamente quanta responsabilità, ma che ci sia responsabilità non solo per il passato ma anche per il presente e, di conseguenza, per il futuro – e in questo gli intellettuali ebrei americani hanno svolto, svolgono e svolgeranno un ruolo privilegiato – è questione che non dovrebbe più essere aggirata.

Nonostante la retorica della sua vittimizzazione da parte dei palestinesi, Israele è oggi una potenza incredibile: come ha detto Abba Eban (31), la minaccia militare che uno Stato palestinese potrebbe rappresentare per Israele è pari a quella che il Lussemburgo potrebbe rappresentare per l’Unione Sovietica. La questione fondamentale è come gli intellettuali ebrei americani si relazionano con quel potere: il potere dello Stato, della lobby, dello status delle principali organizzazioni ebraiche che in privato ho sentito molti di voi dire non rappresentarvi affatto. Non penso sia ingiusto affermare che la maggior parte degli intellettuali ebrei americani non dissentono né si oppongono bensì servono quello schieramento di poteri. Se si accetta la linea del governo israeliano (così servilmente propagandata da apologeti non israeliani come Conor Cruise O’Brien) (32) si sta in effetti accettando uno stato di ostilità prolungato all’infinito non solo tra Israele e i palestinesi, ma tra Israele e virtualmente tutti i suoi vicini.

Ciò che un futuro del genere realmente significa è molto meno felice di quello che può essere racchiuso sotto espressioni (per gli intellettuali distinti dai lobbisti) come «sicurezza di Israele». Significa proseguire nella repressione dei palestinesi. Significa mantenere la quota distortamente elevata di bilancio israeliano destinata alla «difesa»: prima dell’lntifada, per fare un piccolo esempio, meno di 10 mila soldati israeliani svolgevano il lavoro ora svolto da oltre 100 mila. Se aggiungiamo i costi per nuovi aerei, carri armati e sottomarini, circa il 40% delle spese statali andranno all’esercito. Le esigenze militari di Israele continueranno a richiedere maggiore sostegno da parte degli Stati Uniti, e non c’è bisogno di un’intelligenza aristotelica per dedurre che col tempo, e dati i cambiamenti nell’opinione pubblica che qui si sono già verificati, gli aiuti statunitensi a Israele saranno ridotti. Nello stesso Medio Oriente sanguinosi conflitti interni (che hanno come radici la religione e l’identità etnica) stanno già mettendo a dura prova le strutture statali, che non hanno risposto alle richieste delle minoranze; questo schema è facilmente osservabile oggi in Israele e peggiorerà.

Il sionismo nella pratica e in Medio Oriente è sempre stato più onesto che negli Stati Uniti. Ben-Gurion non ha mai nascosto di preferire un Israele in guerra piuttosto che uno in pace con gli arabi. Se una tale politica sembrava necessaria durante i primi anni di vita dello Stato israeliano, è continuata nel presente con conseguenze incredibilmente pericolose e persino stupidamente autodistruttive. L’idea che, se Israele è nei guai in patria o con gli Stati Uniti, possa improvvisamente lanciare un attacco «preventivo» diversivo da qualche parte è già abbastanza grave; che lo faccia con l’illusione che gli Stati Uniti copriranno sempre (come nel 1982) le azioni israeliane con il loro denaro e il loro potere, grazie alla lobby e ai suoi servitori, è un suicidio. La logica dell’escalation militare è in tal nodo giustificata in un mondo arabo ora completamente armato con un «deterrente» contro la capacità nucleare israeliana: il nome del deterrente è armi chimiche e biologiche. Con questa logica in atto, le conseguenze sociali ed economiche legate al militarismo su vasta scala saranno terribili. La durezza, il fanatismo e la sconsideratezza delle azioni israeliane appaiono quindi oggi abbastanza gravi senza ulteriori intensificazioni dell’ostilità del contesto generale. Incoraggiare Israele a mettere lo stivale in faccia agli arabi e ai musulmani è una follia; non siete consapevoli di come il  risentimento, l’odio e il desiderio di vendetta si stiano accumulando nei cuori arabi e musulmani, già pericolosamente pieni di passione disinformata, odio indiscriminato, rabbia indistinta? Non siete sensibili alla verità secondo cui nessuno probabilmente dimenticherà o perdonerà anni di insulti. arroganza e vendicatività da parte di Israele?

Dire che Israele non è il solo da incolpare, o che è stata prestata troppa attenzione da parte dei media al trattamento riservato ai palestinesi, non rappresenta una seria giustificazione delle deplorevoli politiche di Israele. Ancora una volta, i fatti sono che Israele è un unicum nella domanda e nell’acquisizione di denaro e attenzione da parte degli Stati Uniti. Né Israele né i suoi sostenitori possono un giorno chiedere un esame scrupoloso e fondato sui principi dello straziante passato ebraico così come dei pericoli per gli ebrei nel presente, e poi, il giorno dopo, quando i palestinesi rivendicano lo stesso diritto, dire che gli ebrei non hanno bisogno di guardare troppo da vicino al passato e al presente palestinesi. La storia palestinese e la storia ebraica sono, almeno per il XX secolo, inscritte l’una nell’altra; non possono essere separate, e devono essere valutate e riconosciute in termini morali, in termini di un futuro in cui entrambi i popoli abbiano il diritto alla sopravvivenza e a un’esistenza dignitosa in una Palestina condivisa, divisa in due Stati. Non meno degli ebrei, i palestinesi hanno raggiunto un grado innegabile e irreversibile di autocoscienza nazionale al quale sarebbe (ed è) etnocida opporsi.

Se ho ragione, allora gli intellettuali ebrei americani devono di chiararsi apertamente e alla luce del sole per la sopravvivenza congiunta e politicamente paritaria di due popoli, oppure dovrebbero dire apertamente che ritengono che i palestinesi sono e dovrebbero rimanere meno uguali degli ebrei. La seconda è un’opzione che può essere combattuta direttamente, come tanti hanno combattuto Rabbi Kahane (33). Nel primo caso, noi palestinesi ed ebrei in America-possiamo lottare insieme, dalla stessa parte. Gli imperativi sono la fine dell’occupazione e, cosa ancora più importante, una certa pressione effettiva sul governo statunitense affinché modifichi e ispiri la politica israeliana. Avete le risorse e potete contare anche sulle nostre per raggiungere un simile obiettivo. Ma qualunque cosa facciate, vi prego di non voltarvi dall’altra parte, di non tergiversare, di non parlare di tutto tranne che del Medio Oriente, di non mettere in dubbio la mia persona dicendo che i problemi sono il terrorismo, l’islam e la cultura o l’intransigenza arabe. Mentre i palestinesi vengono uccisi ogni giorno dai soldati israeliani, e mentre la nazione palestinese viene punita senza pietà dallo Stato del popolo ebraico, il vostro ruolo di intellettuali, io credo, è quello di testimoniare contro questi crimini. Ciò serve anche a fornire agli israeliani sotto attacco e ai loro sostenitori un modello alternativo alla coercizione o alla stridente militanza senza fine diretta contro una regione in cui, nel bene e nel male, Israele deve cercare di sopravvivere in modo umano e appropriato. In un momento come questo, la contrattazione politica è indecente, e se le nostre posizioni fossero invertite mi congedereste se ci provassi.

Mi sembra quindi che la strada davanti a noi sia chiaramente tracciata. Dobbiamo lottare per la giustizia, la verità e il diritto a una critica onesta, oppure dobbiamo semplicemente rinunciare al titolo di intellettuali.

Il testo è stato pubblicato originariamente su Jewish Currents il 21 settembre 2022 con il titolo «An Open Letter to American-Jewish Intellecuals».

(1) Studioso, attivista e rabbino conservatore americano che curò l’influente antologia The Zionist Idea. Sostenne la causa sionista pur rimanendo critico nei confronti di alcune politiche dello Stato israeliano. Dove non diversamente indicato le note sono della redazione di Jewish Current.

(2) Said si riferisce alla prima Intifada, lotta palestinese contro l’occupazione israeliana della Cisgiordania e di Gaza iniziata nel 1987 e ancora in corso nel momento in cui scrive questo articolo, alla fine del 1989.

(3) Il New York Times ha soprannominato Kristol «il padrino del conservatorismo moderno». Kristol è stato il fondatore della rivista neoconservatrice The Public Interest.

(4) Nel suo articolo sul Wall Street Journal, Kristol sosteneva che, lungi dal portare la pace in Medio Oriente, un accordo di pace israelo-palestinese avrebbe costituito il «preludio garantito a una guerra che potrebbe sconvolgere l’intero Medio Oriente».

(5) Nella sessione del novembre 1988 ad Algeri il Consiglio nazionale palestinese adottò una «Dichiarazione di indipendenza dello Stato di Palestina» che fu redatta da Said insieme al poeta palestinese Mahmoud Darwish. La dichiarazione fu considerata contenere importanti concessioni, compreso il riconoscimento indiretto dello Stato di Israele.

(6) La risoluzione 242, adottata dal Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite nel 1967, invitava Israele a cedere i territori che aveva occupato durante la guerra dei 6 giorni. La risoluzione 338. adottata nel 1973, chiedeva il cessate il fuoco nella guerra dello Yom Kippur e l’attuazione della risoluzione 242.

(7) Arafat è stato presidente dell’Organizzazione per la liberazione della Palestina (Olp) dal 1996 al 2004 e presidente dell’Autorità nazionale palestinese (Anp) dal 1997 al 2004.

(8) Said si riferisce a Benny Morris, Tom Segev e Simba Flapan, figure di spicco di un gruppo noto come i «nuovi storici», che ha sfidato  le tradizionali interpretazioni sioniste sulla fondazione di Israele.

(9) Giornalista, il suo From Time Immemorial del 1984 sosteneva che i palestinesi erano immigrati recenti nella terra divenuta lo Stato di Israele, non un gruppo con profondi legami storici con la regione.

(10) Autore del romanzo bestseller Exodus del 1958, che David Ben-Gurion. all’epoca primo ministro israeliano, descrisse come «propaganda» e la cosa più gran de mai scritta su Israele.

(11) Eminente romanziera e saggista, Ozick è anche una sionista impegnata. In un articolo sul Wall Street Journal del 2003, Ozick ha descritto il contributo della nazione palestinese al mondo come «terrore, terrore, terrore,

(12) Scrittore e commentatore politico, è stato caporedattore della rivista conservatrice Commentary dal 1960 al 1995.

(13) Nel corso degli anni Ottanta, ciascuna di queste riviste pubblicò articoli che descrivevano i palestinesi come terroristi che cercavano di distruggere la patria ebraica. In un articolo del Commentary del 1986, le denunce palestinesi circa i continui insediamenti nella regione venivano definite oltraggiosi miti arabi. Nello stesso anno, il caporedattore di The New Republic scrisse che «la nonviolenza è estranea alla cultura politica degli arabi in generale e dei palestinesi in particolare.

(14) La Uss Liberty era una nave spia della marina degli Stati Uniti, nota per l’attacco che subì l’8 giugno 1967 al largo delle coste di Israele, n.d.t.

(15) Nel dicembre 1954, gli aerei da guerra israeliani intercettarono e fecero atterrare un velivolo siriano, trattenendone i passeggeri in modo che potessero essere scambiati con soldati israeliani fatti prigionieri in Siria.

(16) I bombardamenti degli ospedali e gli attacchi al napalm qui descritti molto probabilmente hanno avuto luogo durante le invasioni israeliane del Libano negli anni settanta e nel 1982. Altrove, Said scrive che durante un attacco del 1982 a un campo profughi palestinese in Libano, le guardie di frontiera israeliane costrinsero le persone a sottomettersi, strisciando, abbaiando e salutando il primo ministro israeliano.

(17) Nel 1988, in un incontro a New York dei leader ebrei americani, si dice che Kissinger abbia suggerito che Israele avrebbe dovuto emulare il Sudafrica bandendo le telecamere dai territori occupati.

(18) Nel 1989, Papp, un produttore teatrale ebreo americano, cancellò una produzione di The Story of Kufur Shamma della compagnia teatrale palestinese El-Ha-kawati, che avrebbe dovuto essere rappresentata al Public Theatre di New York.

(19) Il Political Action Committee (Pac) è un comitato che raccoglie fondi a sostegno di candidati, referendum o iniziative legislative, n.d.t.

(20) Said si riferisce all’invasione e all’occupazione da parte di Israele nel 1982 di alcune zone del Libano. In particolare, il massacro di Sabra e Shatila, in cui civili palestinesi e libanesi furono uccisi da una milizia libanese di destra appoggiata dall’esercito israeliano, suscitò una protesta mondiale.

(21) Si riferisce alla Carta nazionale palestinese adottata dal Pnc nel 1968 che dichiarava la creazione dello Stato di Israele «del tutto illegale» s e affermava «l’assoluta determinazione» del popolo palestinese a continuare la lotta armata per la liberazione.

(22) A partire dalla fine degli anni settanta, i governi laburisti attuarono il piano Allon – dal nome dell’ex ministro del Lavoro Yigal Allon – in base al quale furono costruiti insediamenti israeliani in Cisgiordania e Gerusalemme fu destinata all’annessione.

(23) «Operazione Pace per la Galilea» era il termine utilizzato dal governo israeliano per l’invasione del Libano nel 1982.

(24) Said si riferisce alla presidenza di Ronald Reagan (1981-1989). Come suo segretario di Stato dal 1982 al 1989, George Shultz svolse un ruolo importante nel plasmare la politica estera americana, soprattutto in Medio Oriente.

(25) Nel dicembre 1987, i soldati israeliani spararono e uccisero almeno 22 palestinesi disarmati nella Striscia di Gaza. L’amministrazione Reagan rispose invitando Israele a usare «moderazione» nell’uso di munizioni vere per reprimere le proteste.

(26) Days of Rage. The Young Palestines è un film documentario girato nei territori occupati nell’estate del 1988, durante la prima lntifada, trasmesso per la prima volta su PBS nel 1989, n.d.t.

(27) Said si riferisce al rapporto Punishing a Nation: Human Palestinian Rights Violations During the Palestinian Uprising, pubblicato nel 1988 dall’organizzazione per i diritti umani Al-Haq con sede a Ramallah. Al-Haq è una delle sei ong recentemente dichiarate terroristiche dal governo israeliano e successivamente oggetto di blitz. I governi europei che hanno esaminato il dossier del governo israeliano contro le ong affermano che non contiene prove sostanziali per designarle come terroristiche.

(28) Il 28 luglio 1989, il religioso libanese Abdul Karim Obaid (scritto anche Obeid) fu rapito e tenuto in ostaggio dall’esercito israeliano come merce di scambio per ottenere informazioni su un pilota dell’aeronautica israeliana scomparso.

(29) Al momento in cui Said scrive, Sharon era il ministro israeliano dell’Industria, del commercio e del lavoro. Nel 2001 divenne l’undicesimo primo ministro di Israele.

(30) Menachem Mendel Schneerson, rabbino, ucraino, naturalizzato statunitense, settimo Rebbe del movimento Chabad-Lubavitch. n.d.t.

(31) Eban è stato un politico e diplomatico israeliano che ha ricoperto vari incarichi ministeriali alla Knesset dagli anni Sessanta agli anni Ottanta.

(32) O’Brien è stato un politico e diplomatico irlandese, autore del libro The Siege: The Saga of Israel and Zionism (1986).

(33) Rabbino e politico estremista statunitense, n.d.t.

Traduzione dall’inglese di Ingrid Colanicchia.