EUGENIO MONTALE È ancora possibile la poesia?

Dal discorso pronunciato durante la cerimonia per il ritiro del Premio Nobel per la Letteratura, il 12 dicembre 1975

Io sono qui perché ho scritto poesie, un prodotto assolutamente inutile, ma quasi mai nocivo e questo è uno dei suoi titoli di nobiltà. Ma non è il solo, essendo la poesia una produzione o una malattia assolutamente endemica e incurabile. Sono qui perché ho scritto poesie: sei volumi, oltre innumerevoli traduzioni e saggi critici. Hanno detto che è una produzione scarsa, forse supponendo che il poeta sia un produttore di mercanzie; le macchine debbono essere impiegate al massimo. Per fortuna la poesia non è una merce. Essa è una entità di cui si sa assai poco, tanto che due filosofi tanto diversi come Croce storicista idealista e Gilson cattolico, sono d’accordo nel ritenere impossibile una storia della poesia.
Per mio conto, se considero la poesia come un oggetto ritengo ch’essa sia nata dalla necessità di aggiungere un suono vocale (parola) al martellamento delle prime musiche tribali. Solo molto più tardi parola e musica poterono scriversi in qualche modo e differenziarsi. Appare la poesia scritta, ma la comune parentela con la musica si fa sentire. La poesia tende a schiudersi in forme architettoniche sorgono i metri, le strofe, le così dette forme chiuse. Ancora nelle prime saghe nibelungiche e poi in quelle romanze, la vera materia della poesia è il suono. Ma non tarderà a sorgere con i poeti provenzali una poesia che si rivolge anche all’occhio. Lentamente la poesia si fa visiva perché dipinge immagini, ma è anche musicale: riunisce due arti in una. Naturalmente gli schemi formali erano larga parte della visibilità poetica. Dopo l’invenzione della stampa la poesia si fa verticale, non riempie del tutto lo spazio bianco, è ricca di a capo e di riprese. Anche certi vuoti hanno un valore. Ben diversa è la prosa che occupa tutto lo spazio e non da indicazioni sulla sua pronunziabilità. È a questo punto gli schemi metrici possono essere strumento ideale per l’arte del narrare, cioè per il romanzo. È il caso di quello strumento narrativo che è l’ottava, forma che è già un fossile nel primo Ottocento malgrado la riuscita del Don Giovanni di Byron (poema rimasto interrotto a mezza strada). Ma verso la fine dell’Ottocento le forme chiuse della poesia non soddisfano più né l’occhio né l’orecchio. Analoga osservazione può farsi per il Blank verse inglese e per l’endecasillabo sciolto italiano. E nel frattempo fa grandi passi la disgregazione del naturalismo ed è immediato il contraccolpo nell’arte pittorica. Così con un lungo processo, che sarebbe troppo lungo descrivere, si giunge alla conclusione che non si può riprodurre il vero, gli oggetti reali, creando così inutili doppioni; ma si espongono in vitro, o anche al naturale, gli oggetti o le figure di cui Caravaggio o Rembrandt avrebbero presentato un facsimile, un capolavoro. Alla grande mostra di Venezia anni fa era esposto il ritratto di un mongoloide: era un argomento très dègoûtant, ma perché no? L’arte può giustificare tutto. Sennonché avvicinandosi ci si accorgeva che non di un ritratto si trattava, ma dell’infelice in carne e ossa. L’esperimento fu poi interrotto manu militari, ma in sede strettamente teorica era pienamente giustificato. Già da anni critici che occupano cattedre universitarie predicavano la necessità assoluta della morte dell’arte, in attesa non si sa di quale palingenesi o resurrezione di cui non s’intravvedono i segni.
Quali conclusioni possono trarsi da fatti simili? Evidentemente le arti, tutte le arti visuali, stanno democratizzandosi nel senso peggiore della parola. L’arte è produzione di oggetti di consumo, da usarsi e da buttarsi via in attesa di un nuovo mondo nel quale l’uomo sia riuscito a liberarsi di tutto, anche della propria coscienza. L’esempio che ho portato potrebbe estendersi alla musica esclusivamente rumoristica e indifferenziata che si ascolta nei luoghi dove milioni di giovani si radunano per esorcizzare l’orrore della loro solitudine. Ma perché oggi più che mai l’uomo civilizzato è giunto ad avere orrore di se stesso?
Ovviamente prevedo le obiezioni. Non bisogna confondere le malattie sociali, che forse sono sempre esistite ma erano poco note perché gli antichi mezzi di comunicazione non permettevano di conoscere e diagnosticare la malattia. Ma fa impressione il fatto che una sorta di generale millenarismo si accompagni a un sempre più diffuso comfort, il fatto che il benessere (là dove esiste, cioè in limitati spazi della terra) abbia i lividi connotati della disperazione. Sotto lo sfondo così cupo dell’attuale civiltà del benessere anche le arti tendono a confondersi, a smarrire la loro identità. Le comunicazioni di massa, la radio e soprattutto la televisione, hanno tentato non senza successo di annientare ogni possibilità di solitudine e di riflessione. Il tempo si fa più veloce, opere di pochi anni fa sembrano datate e il bisogno che l’artista ha di farsi ascoltare prima o poi diventa bisogno spasmodico dell’attuale, dell’immediato. Di qui l’arte nuova del nostro tempo che è lo spettacolo, un’esibizione non necessariamente teatrale a cui concorrono i rudimenti di ogni arte e che opera una sorta di massaggio psichico sullo spettatore o ascoltatore o lettore che sia. Il deus ex machina di questo nuovo coacervo è il regista. Il suo scopo non è solo quello di coordinare gli allestimenti scenici, ma di fornire intenzioni a opere che non ne hanno o ne hanno avute altre.
C’è una grande sterilità in tutto questo, un’immensa sfiducia nella vita. In tale paesaggio di esibizionismo isterico quale può essere il posto della più discreta delle arti, la poesia? La poesia così detta lirica è opera, frutto di solitudine e di accumulazione. Lo è ancora oggi ma in casi piuttosto limitati. Abbiamo però casi più numerosi in cui il sedicente poeta si mette al passo coi nuovi tempi. La poesia si fa allora acustica e visiva. Le parole schizzano in tutte le direzioni come l’esplosione di una granata, non esiste un vero significato, ma un terremoto verbale con molti epicentri. La decifrazione non è necessaria, in molti casi può soccorrere l’aiuto dello psicanalista. Prevalendo l’aspetto visivo la poesia è anche traducibile e questo è un fatto nuovo nella storia dell’estetica. Ciò non vuoi dire che i nuovi poeti siano schizoidi. Alcuni possono scrivere prose classicamente tradizionali e pseudo versi privi di ogni senso. C’è anche una poesia scritta per essere urlata in una piazza davanti a una folla entusiasta. Ciò avviene soprattutto nei paesi dove vigono regimi autoritari. E simili atleti del vocalismo poetico non sempre sono sprovveduti di talento. Citerò un caso e mi scuso se è anche un caso che mi riguarda personalmente. Ma il fatto, se è vero, dimostra che ormai esistono in coabitazione due poesie, una delle quali è di consumo immediato e muore appena è espressa, mentre l’altra può dormire i suoi sonni tranquilla. Un giorno si risveglierà, se avrà la forza di farlo.
La vera poesia è simile a certi quadri di cui si ignora il proprietario e che solo qualche iniziato conosce. Comunque la poesia non vive solo nei libri o nelle antologie scolastiche. Il poeta ignora e spesso ignorerà sempre il suo vero destinatario. Faccio un piccolo esempio personale. Negli archivi dei giornali italiani si trovano necrologi di uomini tuttora viventi e operanti. Si chiamano coccodrilli. Pochi anni fa al Corriere della Sera io scopersi il mio coccodrillo firmato da Taulero Zulberti, critico, traduttore e poliglotta. Egli affermava che il grande poeta Majakovskij avendo letto una o più mie poesie tradotte in lingua russa avrebbe detto: «Ecco un poeta che mi piace. Vorrei poterlo leggere in italiano». L’episodio non è inverosimile. I miei primi versi cominciarono a circolare nel 1925 e Majakovskij (che viaggiò anche in America e altrove) morì suicida nel 1930. Majakovskij era un poeta al pantografo, al megafono. Se ha pronunziate tali parole posso dire che quelle mie poesie avevano trovato, per vie distorte e imprevedibili, il loro destinatario.
Non credo però che io abbia un’idea solipsistica della poesia. L’idea di scrivere per i così detti happy few non è mai stata la mia. In realtà l’arte è sempre per tutti e per nessuno. Ma quel che resta imprevedibile è il suo vero begetter, il suo destinatario. L’arte-spettacolo, l’arte di massa, l’arte che vuole produrre una sorta di massaggio fisico-psichico su un ipotetico fruitore ha dinanzi a sé infinite strade perché la popolazione del mondo è in continuo aumento. Ma il suo limite è il vuoto assoluto. Si può incorniciare ed esporre un paio di pantofole (io stesso ho visto così ridotte le mie), ma non si può esporre sotto vetro un paesaggio, un lago o qualsiasi grande spettacolo naturale. La poesia lirica ha certamente rotto le sue barriere. C’è poesia anche nella prosa, in tutta la grande prosa non meramente utilitaria o didascalica: esistono poeti che scrivono in prosa o almeno in più o meno apparente prosa; milioni di poeti scrivono versi che non hanno nessun rapporto con la poesia. Ma questo significa poco o nulla. Il mondo è in crescita, quale sarà il suo avvenire non può dirlo nessuno. Ma non è credibile che la cultura di massa per il suo carattere effimero e fatiscente non produca, per necessario contraccolpo, una cultura che sia anche argine e riflessione. Possiamo tutti collaborare a questo futuro. Ma la vita dell’uomo è breve e la vita del mondo può essere quasi infinitamente lunga.
Avevo pensato di dare al mio breve discorso questo titolo: potrà sopravvivere la poesia nell’universo delle comunicazioni di massa? È ciò che molti si chiedono, ma a ben riflettere la risposta non può essere che affermativa. Se s’intende per la così detta belletristica è chiaro che la produzione mondiale andrà crescendo a dismisura. Se invece ci limitiamo a quella che rifiuta con orrore il termine di produzione, quella che sorge quasi per miracolo e sembra imbalsamare tutta un’epoca e tutta una situazione linguistica e culturale, allora bisogna dire che non c’è morte possibile per la poesia.

[…]

Ma ora per concludere debbo una risposta alla domanda che ha dato un titolo a questo breve discorso. Nella attuale civiltà consumistica che vede affacciarsi alla storia nuove nazioni e nuovi linguaggi, nella civiltà dell’uomo robot, quale può essere la sorte della poesia? Le risposte potrebbero essere molte. La poesia è l’arte tecnicamente alla portata di tutti: basta un foglio di carta e una matita e il gioco è fatto. Solo in un secondo momento sorgono i problemi della stampa e della diffusione. L’incendio della Biblioteca di Alessandria ha distrutto tre quarti della letteratura greca. Oggi nemmeno un incendio universale potrebbe far sparire la torrenziale produzione poetica dei nostri giorni. Ma si tratta appunto di produzione, cioè di manufatti soggetti alle leggi del gusto e della moda. Che l’orto delle Muse possa essere devastato da grandi tempeste è più che probabile, certo. Ma mi pare altrettanto certo che molta carta stampata e molti libri di poesia debbano resistere al tempo.
Diversa è la questione se ci si riferisce alla reviviscenza spirituale di un vecchio testo poetico, il suo rifarsi attuale, il suo dischiudersi a nuove interpretazioni. E infine testa sempre dubbioso in quali limiti e confini ci si muove parlando di poesia. Molta poesia d’oggi si esprime in prosa. Molti versi d’oggi sono prosa e cattiva prosa. L’arte narrativa, il romanzo, da Murasaki a Proust ha prodotto grandi opere di poesia. E il teatro? Molte storie letterarie non se ne occupano nemmeno, sia pure estrapolando alcuni geni che formano un capitolo a parte. Inoltre: come si spiega il fatto che l’antica poesia cinese resiste a tutte le traduzioni mentre la poesia europea è incatenata al suo linguaggio originale? Forse il fenomeno si spiega col fatto che noi crediamo di leggere Po Chü-i e leggiamo invece il meraviglioso contraffattore Arthur Waley? Si potrebbero moltiplicare le domande con l’unico risultato che non solo la poesia, ma tutto il mondo dell’espressione artistica o sedicente tale è entrato in una crisi che è strettamente legata alla condizione umana, al nostro esistere di esseri umani, alla nostra certezza o illusione di crederci esseri privilegiati, i soli che si credono padroni della loro sorte e depositari di un destino che nessun’altra creatura vivente può vantare. Inutile dunque chiedersi quale sarà il destino delle arti. È come chiedersi se l’uomo di domani, di un domani magari lontanissimo, potrà risolvere le tragiche contraddizioni in cui si dibatte fin dal primo giorno della Creazione (e se di un tale giorno, che può essere un’epoca sterminata, possa ancora parlarsi).