Da «Donnarumma all’assalto»
Scurisce, la sera, dopo l’uscita dal lavoro. Dal bivio sulla Statale una lunga strada scende a larghe curve, in mezzo a una specie di periferia, dentro Santa Maria. Per un tratto, alta sulla collina, domina e guarda la rocca del paese e il mare; ma di sera è buia, avendo solo i lumi del golfo all’orizzonte; panni appesi sono invisibili contro il cielo e i bambini stanno ammucchiati nell’ombra o fuggono davanti al motore come soffici macchie. Da che il comune ha istituito la circonvallazione, con l’idea di sveltire il traffico, per entrare in paese si devia a destra e si infila una stradina ripida che sbatte contra un passaggio a livello sempre chiuso. Quando finalmente il treno è passato e hanno alzato le sbarre, ecco la città bassa, attorno al tempio, le cui colonne si ammollano nell’acqua paludosa; attorno al giardino verde e foltissimo; fin sulle luci fioche a corona della piazza e sull’orlo del porto. Ecco il mare.
Ho fatto un giro a piedi lungo il corso e comprato il pane, la frutta, per la cena. Il paese non si anima, come le città, i paesi, la sera; anzi, dopo il tramonto, senza divertimenti, è più stanco. L’agitazione di tutto il giorno, intensa a ogni ora per un mercato continuo, per una mescolanza di popolo senza flusso in direzioni precise, ma intrecciato, che fitto gira in tondo, fuori casa, dentro casa, fuori le botteghe, dentro le botteghe, questa agitazione muore. È il segno delle città meridionali, di una malattia cronica la cui febbre si spenge la sera.
Eppure a Santa Maria sembra sempre festa, a causa dei gridi, dei banchetti di verdura e di pesce, dei carretti, delle limonate, dei gelati; a causa del corso gremito ininterrottamente dalla gran popolazione, come se sempre uscisse la messa alta, la domenica. Il sole vi è splendido di giorno, la notte dolce, marina. Nei vicoli più stretti sosta una circolazione ferma, ci vivono le donne anziane con le sedie, gli artigiani laboriosi e i bambini.
Invece gli uomini avventurosi e disoccupati, i candidati, preferiscono di solito gli spazi larghi; la piazza e i circoli; i giardini e la stazione; il porto.
L’automobile, ferma sul piazzale del porto, tra le piante e il mare, l’avevano circondata quattro bambini attratti fuori da un vicolo: ma anche un uomo, presso lo sportello, uno sconosciuto di faccia e non di nome; una faccia da impiegato, sui quaranta, con la camicia bianca abbottonata, ma senza cravatta.
Egli si è piegato timido e assai forbito: «Si ricorda di me? Sarei venuto su a sollecitare un secondo colloquio… Dovevo darle una risposta… Volevo dirle: anche come operaio. Mi accontento di qualsiasi lavoro».
«Come operaio è ancora più difficile, se lei è iscritto al Collocamento come impiegato». Si è illuminato di stupore. «Allora come impiegato… Le faccio presente la mia domanda di impiegato».
Come impiegato è ancora più difficile che come operaio, poiché non abbiamo assolutamente assunzioni di impiegati».
«Ma allora?».
«Allora, lo vede, non ci sono possibilità. Non dipende da me».
Ci pensava e si inchinava in una mortificazione riflessiva: «Ma lei, dottore, si ricorda di me?».
«Mi ricordo di lei, adesso. Ci siamo visti l’altro ieri». Ha dato un sospiro, è rimasto vicino.
Fatto qualche passo, come per decidere, mi allontanavo dall’automobile lungo il gradino che dalla piazza salta nel mare, dove una corona di lampioni dà riflessi alle barche attraccate e alle onde nere. L’impiegato seguiva premuroso e illuso di accompagnare in passeggiata un uomo potente. Lo portavo dietro. Passo passo si arriva verso dove le case avanzano sul molo, la piazza si restringe in una striscia vuota di basso porto.
«Può darmi una speranza?» ha detto l’uomo solerte, ma come se non pregasse per sé.
«Io le posso dare una speranza. Gliela posso dare io. Ma se gliela do io, a che cosa le serve?». Ha ridacchiato: «Eh, come, dottore, se me la dà lei… a qualche cosa serve. Una sua parola…».
«Sì, le posso dare una speranza io. È una speranza privata. Non c’entra né la fabbrica né il Collocamento».
«Privata… dottore…» ha fatto, conversando come uno scettico signore. Quella striscia oscura di basso porto, tra casupole basse ma verticali una sull’altra, erte, e la partenza dei battelli per le isole, sta sotto la rocca di Santa Maria; è alla base di questa rocca sporgente, della piramide dell’antica città.
«Io non posso impedire a nessuno di sperare. Ma questo non sposta nulla di un centimetro».
A metà passeggiata – avevamo fatto pochi metri – ha ricevuto il colpo, ed era interdetto da troppa fatalità, da troppa cattiveria. Inclinava da una parte la testa sulla giacca: «Ma come, se mi dà una speranza lei…».
«È come se gliela desse il primo che incontra per la strada».
Allargava le braccia, da avvocato di difesa: «Dottore, se lei vuole, una sua parola…».
«No. Sa che possiamo sperare tutti e due che la fabbrica si ingrandisca. Che la fabbrica diventi così grande da avere bisogno di migliaia di operai, di centinaia e centinaia di impiegati…».
«Chi lo desidera più di me, dottore? Che diventi assai, assaissimo grande». Spalancava completamente le braccia: che occupasse la collina intera, il paese, le spiagge. Si è finto esaltato – e magari lo era – dell’idolatria per lo stabilimento.
Intanto la passeggiata non dava frutti; lo vedevo spengersi: «Ma lei non mi dimentichi».