GEMMA ROMANO Dove vanno gli insegnanti d’estate?

[Il post, 8 giugno 2024]

Come sono davvero le ferie di chi insegna? Cosa facciamo quando la scuola è chiusa? Ci dissolviamo? Dormiamo? Prendiamo il sole? Come le anatre del «Giovane Holden» voliamo via? O ci porta via un furgone? Torniamo al sud a fare le olive al campo del nonno? Non sono tre mesi di ferie e insegnare non è un lavoro normale. Se il docente fosse un architetto, nel suo cantiere gli operai sarebbero sempre in rivolta. Se fosse un medico opererebbe gente non sedata e senza bisturi.

Qualcuno si chiede, fuori da ogni polemica, dove finiscono i docenti d’estate, dall’8 giugno in poi, dopo la chiusura delle lezioni per la pausa estiva. Li porta via un furgone o un vattelapesca? Migrano verso i paesi caldi? Si nascondono? Scappano col circo? Come sarebbe bello se qualcuno ci pensasse come Il giovane Holden pensava alle anatre, passando in taxi vicino al laghetto di Central Park.

Creature stanziali fino all’arrivo dell’estate, considerati spesso poco più di un arredo nel gran mastodonte chiamato scuola, a volte stimati, spesso dileggiati ma più spesso ancora ignorati. Quando arriva il caldo, come quando a New York arriva il gelo, con un battito d’ali sembriamo scomparire, volteggiare nell’aria verso i fantomatici “tre mesi di ferie” che tutti ci invidiano e per i quali molti ci disprezzano. Con logica ferrea il tassista risponde a Holden Caulfield che le anatre non vanno mai via, neanche quando il lago è ghiacciato: «È la loro natura! Stanno lì come i pesci, anche se non le vedi!» spiega. E così è per noi, perché è la scuola che ci abita, non noi che la abitiamo, e anche per lo stacco estivo nessuno se ne va mai davvero.

Innanzitutto non abbiamo tre mesi di ferie.

Fino al 30 giugno le scuole dell’infanzia funzionano normalmente. Gli esami di terza media si chiudono nella quasi totalità sempre il 30 giugno, compresi tutti gli adempimenti amministrativi e burocratici di fine anno. A seguire ci sono commissioni e attività per docenti impegnati in particolari funzioni, che li trattengono a scuola anche fino a metà luglio e più. I colleghi delle superiori hanno i giorni della maturità che si chiudono verso fine luglio e gli esami di recupero calendarizzati a fine agosto.

I piani di scuola estiva che si stanno susseguendo per volere del ministero, dal covid in poi, sono una nuova modalità di lavoro che prende sempre più piede e che spinge molti docenti ad aderire alla gestione di percorsi di recupero o potenziamento o attività rivolte ai ragazzi fino a luglio inoltrato. La scuola come istituzione non chiude mai del tutto i battenti, le segreterie sono attive fino a ferragosto con i dirigenti e i collaboratori, a turno sempre presenti. La scuola è parte del mondo del lavoro: i dipendenti neo-assunti hanno diritto a 30 giorni lavorativi di ferie e dopo 3 anni di servizio, a qualsiasi titolo prestato, ai dipendenti spettano 32 giorni di ferie. I docenti sono lavoratori, non missionari, e hanno un normale diritto alle ferie che devono fruire però tassativamente in periodi vincolati dai calendari scolastici regionali per le lezioni, gli scrutini e gli esami di stato.

Se avessimo anche ali d’anatra, non potremmo mai volar via per un weekend in bassa stagione o per un viaggio di piacere fuori dai limiti del calendario scolastico. E allora perché le nostre ferie suscitano nell’italiano medio reazioni strane, ammiccanti, velenose, come quel tal cugino di mio padre che, complimentandosi per il mio ingresso in ruolo alcuni anni fa, mi disse che finalmente avrei goduto a sbafo di tre mesi di ferie «pagati dalle sue tasse?».

Certo, c’è l’innegabile vantaggio delle ferie che combaciano con i giorni di chiusura delle scuole dei figli. Certo, la pausa estiva è condensata e generosa. Certo, nei giorni in cui alle elementari ci sono i seggi elettorali, la scuola si ferma. Eppure in base alla mia esperienza il docente non va in ferie: il docente agonizza. Le sue non sono proprio vacanze, è una convalescenza.

Chi insegna arriva alla fine delle attività scolastiche col fiato alla gola, letteralmente. I mesi di frequenza continuativa sono estenuanti. Insegnare a scuola non è un lavoro normale: richiede una concentrazione di umori, emozioni, fatica e scadenze completamente sbilanciata durante l’anno scolastico e che raggiunge a volte picchi di intensità impensabili. Le attività e l’impegno per progettarle, gestirle e portarle a termine – per chi ama il lavoro e lo fa con passione – non hanno un limite di spazio e di tempo. Anche per gli insegnanti volenterosi e sani occorrono diversi anni di pratica per riuscire a staccare la mente durante l’anno, almeno ogni tanto. Si rischia l’overthinking, il burnout.

In occasione dell’open day, dello spettacolo di fine anno, di quella gita particolare, della preparazione delle Invalsi, dell’arrivo di un nuovo NAI (gli studenti Neo Arrivati in Italia), di una rissa inaspettata l’ultima ora del venerdì… quasi ogni giorno il lavoro si prolunga nel weekend, nella sera, nella notte. E non si è davanti a un pc a inserire dati: si media, ci si accorda, si fa e si disfa, è come lavorare a un processo di pace internazionale senza arrivare mai a un risultato definitivo, soddisfacente. Anche quando si briga fino alle dieci di sera, il giorno dopo il lavoro viene smontato da un numero indefinito di variabili, imprevisti, avvenimenti indecifrabili che ti riportano alla casella di partenza.

La correzione dei compiti è snervante e continuamente oggetto di critica da parte di tutti, così come la preparazione di molte lezioni e la gestione di situazioni – già, le situazioni – perché insegnare è un lavoro che spesso assomiglia alla conduzione di una fattoria o alla gestione di un’emergenza alluvioni, più che a un normale lavoro intellettuale. Abbiamo anche responsabilità civili e penali, peraltro.

L’insegnante non è mai solo: nel suo studio (se ce l’ha) sono sempre presenti, a volte anche in simultanea, genitori, alunni, dirigente e colleghi, e qualche volta compaiono anche i pedagogisti Maria Montessori in persona e Jean Piaget che ti guardano storto; il fantasma del ministro di turno ti tira i piedi mentre dormi e ti sventola nel sonno normative di cui hai perso il filo e che ti chiederanno il conto domani, quando dovrai rifare qualcosa da capo. Anche in aula, pur senza telecamere, hai sempre chiaro che tutto ciò che dici e fai è sempre sull’orlo della gogna, e ci rimarrà nei secoli dei secoli: appeso al giudizio di qualunque entità abbia, avrà o abbia avuto a che fare con te.

L’asse portante della struttura psichica del docente è la gestione del conflitto e dell’imprevisto, quasi sempre in situazioni di emergenza, cosa come si può supporre non facile. Ogni giorno, per ore, il docente sta di fronte a provocazioni, obiezioni, si sforza di esercitare empatia, di trovare soluzioni a problemi che non poteva prevedere e che non hanno una procedura di gestione; non c’è una guida da seguire, né ordini a cui obbedire. Si improvvisa sul filo del rasoio, almeno fin quando non ci si sia ancora fatti le ossa sul campo. Abbiamo pianto tutti almeno una volta, sopraffatti dal carico.

Se il docente fosse un architetto, nel suo cantiere gli operai sarebbero sempre in rivolta, mancherebbero cemento e ruspa, e al termine di ogni giorno di attività verrebbe richiesto un resoconto dettagliato di ciò che è stato fatto in merito al progetto che andrebbe scritto di notte, ancora con l’elmetto in testa e la consapevolezza che la casa non sta venendo su come dovrebbe. Se il docente fosse un medico opererebbe gente non sedata, senza bisturi, senza poter fare radiografie e alla presenza di figure di controllo che esigerebbero ogni momento di essere informate sugli sviluppi, anche quando magari il paziente è morto.

È una condizione simile a quella di chi lavora nella sanità o in uno di quei settori di cura poco riconosciuti, poco pagati e poco stimati che reggono la struttura più profonda della società.

Ma torniamo alle ferie.

La vitalità dei ragazzi, che esplode con la primavera, dà gioia ma sfianca. Spesso a fine anno i rapporti con i colleghi sono logoranti e logorati, come in tutte le comunità o le famiglie ad alto contatto e in situazioni di emergenza. Pian piano il caldo avanza e le aule diventano forni: le strutture progettate negli anni Sessanta e Settanta non prevedevano il riscaldamento globale del 2024 e così manca ricambio d’aria, filtri contro l’irraggiamento, non ci sono distributori d’acqua, raffrescatori o ventilatori, se va bene ci sono tende e persiane, altrimenti il sole batte cocente sulla testa di 20-25 adolescenti rinchiusi in una stanza e sui loro insegnanti, per sei ore al giorno. La verità è che l’Italia non ha le strutture per reggere un agosto in aula. Si dovrebbe fare scuola nel bosco, ma folto. O in piscina, ma dentro.

Quando le lezioni finiscono i ragazzi scompaiono e noi restiamo soli nei corridoi. Ci aggiriamo pallidi e scarmigliati carichi di cose ancora da fare, da progettare, ma senza l’adrenalina della gioventù. È difficile immaginare la scuola senza ragazzi, ma è sempre scuola, come la famiglia è pur sempre famiglia anche quando i figli sono a spasso con gli amici. I docenti stanno come genitori: tirano sospiri di sollievo, portano avanti le attività con ritmi lenti, finalmente le corde vocali non sono forzate fino all’estremo, finalmente vengono meno i rapporti di forza. Cambiano gli odori e gli umori, il calore delle aule e dei corridoi sembra meno soffocante.

Ci si riunisce in commissioni, riunioni e nei delicati lavori relativi agli esami, dove rivedremo dei ragazzi diversi, che spesso mostreranno aspetti del loro carattere mai emersi – ma questa è un’altra storia. Le maestre della primaria allestiscono le aule e sistemano i materiali, anche in secondaria ci impolveriamo le braccia fino ai gomiti per scremare libri e materiali, e impostare ciò che ci servirà a settembre. Si butta la roba vecchia, i collaboratori scolastici puliscono a fondo laddove durante l’anno non valeva la pena, i vetri delle finestre finalmente brillano senza manate, sputazzi, aloni. Si sfoderano ventagli per sopravvivere al caldo nei saloni o nelle sale dedicate alle progettazioni e agli esami. Compare qualche ventilatore autorizzato dai dirigenti. Si portano da casa ceste di frutta fresca da condividere mentre si lavora. Sudando si attende la graduale e lenta cessazione effettiva delle attività.

La scuola non è un meccanismo, ha bisogno di spazio e tempo per rigenerarsi. Gli insegnanti che amano e conoscono il proprio lavoro sanno che la pausa è necessaria per permettere alla mente di rifiorire. L’insegnante non è un baby sitter o un intrattenitore, come molti vorrebbero; non esegue procedure, non lavora in catena di montaggio dove ci si usura espletando operazioni senza vita, senz’anima. Non può smettere di leggere o scrivere o studiare, altrimenti muore o, peggio, diventa un impiegato del potere. Eppure durante l’anno, per come funzionano in Italia i tempi della scuola, leggerescriverestudiare per un insegnante è quasi impossibile.

Per quanto mi riguarda, soltanto dopo le prime due settimane di ferie, con il Polase a portata di mano, ore di sonno finalmente congrue, pranzi che contengono proteine e fibre oltre ai carboidrati, commedie romantiche degli anni Novanta su La5 e un giro completo da manicure, parrucchiere ed estetista, sento che la mente torna. Sono anche riuscita a fare quelle visite specialistiche che avevo rimandato per tutto l’anno scolastico e ho appurato di non avere un male incurabile, ma solo stress.

Mi metto al balcone a guardare la vita che scorre. Bevo il caffè per il piacere di farlo, non per tirare un’altra ora sveglia. Stacco da tutto e da tutti. I colleghi più affiatati hanno un tacito accordo tra loro: non cercarmi, non ti sento. Se mi chiami, non ti rispondo, non voglio vederti fino a settembre. Nulla mi deve ricordare la scuola. La scuola non c’è, ci siamo solo io e la bellezza delle cose per le quali ho scelto di insegnare. Quindi leggo, scrivo, recupero la rosa dei finalisti di Cannes, spulcio le biblioteche di quartiere, riguardo gli appunti del corso di formazione obbligatorio e finalmente li capisco. Dimentico con un piacere immenso tutti i nomi dei miei alunni anche se a volte, nel cuore della notte, trovo la soluzione a quel garbuglio tra Annibale e Asdrubale in 2C: ecco come dovevo fare per gestirlo, a settembre sistemerò la situazione. Mi concedo finalmente un museo, un teatro: ecco cosa voglio far vedere alla futura 3A per la Giornata della Memoria! Ecco come posso far commuovere Gigi, come gli piacerebbe!

Ecco il libro, ecco il brano, ecco il percorso!

Mentre passeggio in spiaggia e mento ai vicini di ombrellone sul mio lavoro, perché nessuno si azzardi a dire «beati voi che fate tre mesi di ferie», immagino una progettazione che mi durerà fino a giugno dell’anno prossimo. È in agosto che le idee sgorgano dentro di me con la naturalezza della vocazione. Segno qualcosa su un quadernetto, poi lo nascondo in valigia per non vederlo fino a settembre e vado in pineta a far finta di non essere un docente. Ma lo sono. La scuola è ancora ben salda dentro di me, anche se non ci sto più dentro.

Quando mi prende l’amarezza per il mondo che ci circonda non mi abbatto, ma trovo la bellezza nascosta, quella che a febbraio non sarò più in grado di vedere per la troppa pressione.

Decido di proporre come prima lezione dell’anno L’isola che non c’è di Bennato, per vedere gli occhi dei miei alunni accendersi, desiderare insieme di vivere su un’isola in cui non ci sono santi né eroi, né ladri né dittatori ma solo gente che sta insieme, e desiderare che questa isola sia la nostra classe.

C’è un’ultima cosa che non si può ignorare, i docenti fuori sede, in maggioranza precari. Una volta facevo lezione sulla poesia Ora che sale il giorno di Salvatore Quasimodo: «È così vivo settembre in questa terra di pianura i prati sono verdi come nelle valli del sud a primavera» e il collega di sostegno, siciliano, si mise a piangere. Ce ne sono tanti di insegnanti venuti dal sud per lavorare al nord. Quello che ho imparato stando con loro è che non si lascia mai casa propria con il cuore leggero, neanche per avere il famoso posto fisso in una città che ti offre mille volte più occasioni del tuo paesino in Lucania. Per questi insegnanti l’estate diventa anche lo spazio sacro per riabbracciare, amare, ritrovare. Uno spazio prezioso.

Poi l’estate passa, i 32 giorni di ferie del contratto si consumano tutti. Arriva settembre in un battito d’ali. Varcheremo il portone dei nostri istituti per il primo collegio al 1° settembre, con le barbe curate, i capelli in ordine, il trucco e i tacchi, ognuno con nuove idee e forze rigenerate, magari anche un po’ abbronzati.

Sappiamo bene che a novembre saremo già disfatti, ma questo è il nostro Central Park, il nostro habitat.

Non ce ne siamo mai andati via per davvero: le anatre non le porta via nessuno.